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Elemental, ti abbiamo giudicato troppo in fretta. La recensione del film Pixar

Siamo stati troppo severi con te, Elemental. È bastato un solo giorno per etichettarti come “il clamoroso flop della Pixar”, uscirsene con qualche titolone catastrofico e volgere subito lo sguardo altrove. E invece del buono c’era, e forse c’è bisogno di portarlo alla luce, perché nessuna opera, men che meno una dei Pixar Animation Studios, merita di essere liquidata in fretta e furia sotto la lente superficiale del pregiudizio.

Per esempio c’è che Elemental è una love story. Che è qualcosa che Pixar non aveva mai fatto, se escludiamo forse Wall-E, e che non si vedeva nell’animazione mainstream davvero da un bel po’, se non come sottotrama delle sottotrame (le “donne forti”, dopotutto, non hanno bisogno di relazioni romantiche). Invece qui c’è, e checché ne dica Cannes, è dolcissima, delicatissima, costruita su delle metafore visive molto belle che permettono di accennare all’amore e addirittura alla sessualità con un velo di tenerezza, senza mai scadere nel melenso.

Il legame tra Ember e Wade, poi, è soltanto uno dei tanti nodi di questa storia, la storia di una ragazza che scopre sé stessa nell’incontro col diverso, che grazie all’amore impara a conoscersi, a conoscere le sue emozioni e gli orizzonti verso i quali vuole spingersi. C’è una riflessione sull’integrazione, sul peso che le seconde generazioni portano sulle spalle, sul sacrificio dei genitori e il debito dei figli nei loro confronti (un ragionamento dalla sensibilità molto asiatica; il regista infatti è di origini coreane). Tutto questo di per sé non è davvero nulla di nuovo e nulla di originale, ma ha il grande pregio di rendersi universale, relatable, direbbero gli americani, qualcosa in cui possiamo ritrovarci. E ci ritroviamo in questi personaggi di acqua e fuoco perché Peter Sohn ci apre una finestra sul suo vissuto, prende la sua storia, la confeziona con amore e ce la consegna con una grande, creativa e colorata metafora.

Manca l’originalità? Forse. Ma cos’è lo storytelling se non una rielaborazione dell’interiorità di un autore, a cui ci viene concesso di assistere dal buco della serratura? Cos’è una buona storia, se non qualcosa di estremamente personale che riesce a farsi interprete dell’universalità dell’esperienza umana? Elemental è un film piccolo, non verrà chiamato capolavoro e non entrerà nell’Olimpo del cinema, eppure questo nuovo corso “autoriale” dei Pixar Animation Studios, in cui finalmente ascoltiamo la voce di un narratore e non la formula confezionata ad hoc da un Brain Trust, è forse la cosa più interessante che abbiano provato a fare negli ultimi vent’anni. Perché nel cinema americano, che è fatto di registi che scompaiono dietro le dinamiche commerciali dei grandi studi, gli Autori di animazione si contano sulle dita di una mano (Brad Bird, Guillermo del Toro, Genndy Tartakovsky, Don Bluth…). Qui invece Pixar ce ne sta presentando una generazione, magari dalle voci ancora ingenue, magari dai toni ancora incerti e formulaici, ma comunque una generazione, con qualcosa da dirci e da raccontarci. Un esperimento che andrebbe seguito con attenzione e che invece sta avendo la stessa sorte che toccò all’era sperimentale di Disney Animation nei primi anni 2000, quando si fece lo stesso tentativo con i medesimi modesti (quando non disastrosi) risultati.

E infine c’è l’animazione, e chiunque abbia detto che Pixar non sta più innovando forse non ha notato il fatto che Elemental è un altro passo verso l’abbandono del fotorealismo, verso la stilizzazione e l’ibridazione, restando pur sempre nei familiari confini dell’house style dello studio. La città degli elementi è piena di trovate divertenti, ma qui il piatto forte sono decisamente i personaggi. Con uno sforzo titanico che possiamo solo immaginare, gli animatori e i VFX artist hanno lavorato fianco a fianco per realizzare personaggi che non sono né character né effetti visivi, ma entrambe le cose contemporaneamente a seconda delle esigenze. Ember e Wade sfoggiano due rig (“scheletri” in CGI) articolatissimi, che permettono loro di fluire, saltare, allungarsi, deformarsi, comprimersi, smembrarsi, e soprattutto trasformarsi in acqua o fuoco, di cui peraltro sono fatti, risultando quindi “anatomicamente” sempre in movimento. È tutta la bellezza dello squash & stretch 2D, con il volume e la profondità della computer animation: che gioia per gli occhi, e che meraviglia tornare a vedere dei cartoni che “fanno i cartoni”! Sì, siamo stati decisamente troppo severi con te, Elemental.

Irene Rosignoli: