La diversità, la vecchiaia, le emozioni: i lungometraggi più creativi di casa Pixar portano una sola firma, quella di Pete Docter, uno dei veterani dello studio, recentemente nominato direttore dopo l’allontanamento di John Lasseter. Se le sue opere si piazzano su un livello tutto loro è perché, prima di ragionare da regista, Docter ragiona da animatore: fondamentalmente, il suo desiderio è giocare con dei pupazzetti dalla forma geometrica elementare, né più né meno. Eppure, nei suoi film non ha mai mancato di sfiorare le corde delle grandi tematiche, e Soul, l’ultima fatica, non fa eccezione, ponendosi l’obiettivo di indagare addirittura l’esistenza umana stessa.
Chi conosce bene il resto della filmografia Pixar non potrà definire Soul particolarmente originale, ma noterà piuttosto un filo rosso che collega il tema principale ad altre opere dello studio. L’invito a non ricercare lo straordinario ma apprezzare piuttosto gli affetti e le piccole avventure quotidiane non è certo una novità: ne parlava Up, ovviamente, ma anche Gli Incredibili, e persino Onward quest’anno ha offerto una variazione sul tema. Per certi versi, poi, riuscire a parlare della vita e della morte tramite personaggi buffi e bizzarri come un cane parlante, un beccaccino gigante e un paffuto boy scout è forse la quintessenza di cosa dovrebbe fare l’animazione, ed è interessante notare come il pubblico risponda maggiormente a queste tematiche solo quando il protagonista è un adulto calato in un contesto realistico e urbano.
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Di certo Soul è un film ambizioso: il proposito di parlare dell’esistenza umana e dello scopo della vita è un terreno scivoloso, soprattutto in un film per famiglie che deve necessariamente lavorare per sottrazione ed esemplificazione (cosa in cui comunque Docter eccelle). Va da sé che non tutto fili liscio, la prima parte forse ha un ritmo troppo sostenuto e soffre un po’ di quella malattia di cui soffrono tutti i film Pixar, cioè il bisogno di spiegare in alcuni passaggi introduttivi le leggi e il funzionamento dell’ “altromondo”, in primis al personaggio e poi allo spettatore. L’ultimo atto è più solido, gestisce e motiva bene il classico cliché dello scambio di corpi, ma soprattutto opta per un finale singolare, destinato a dividere (se non, paradossalmente, a deludere) chi guarda. Il messaggio di Soul è banale, ma di una banalità disarmante che potrebbe racchiudere tutto il significato dell’opera: guardiamo all’arte con la speranza di ricevere grandi rivelazioni sul senso della vita, ma forse il senso è semplicemente vivere.
Tuttavia, il vero aspetto in cui Soul è rivoluzionario (e ciò a cui probabilmente dovremmo dare più credito, al netto delle tematiche senza dubbio potenti) è il comparto visivo, un cambio di rotta netto e dirompente rispetto a tutto ciò che abbiamo visto finora in Pixar. Lo studio si è distinto negli ultimi anni per l’utilizzo di sfondi e prop tendenti al fotorealismo abbinato a personaggi più o meno cartooneschi (una sintesi ben rappresentata dal cortometraggio L’ombrello blu). L’unica eccezione erano appunto i film di Pete Docter. Che fosse il maestro della stilizzazione lo sapevamo già, ma qui, nel primo (e probabilmente ultimo) film in cui è insieme regista e direttore creativo, non c’è più ragione per tenere a freno l’immaginazione. Docter ha sempre lavorato con forme e figure tridimensionali semplici, ma stavolta regina e re sono la linea e il punto, l’ossatura del disegno. È la scena del pensiero astratto, che in Inside Out era soltanto un divertissement, portata all’estremo: il mondo delle anime è un gioiello di essenzialità, e quando arriva a mescolarsi con il mondo reale (che peraltro presenta una varietà notevole di character design molto interessanti) ci regala solo un assaggio di ciò che potrebbe fare la computer grafica Pixar lasciandosi alle spalle il realismo estremo.
Che sia l’influenza di Into the SpiderVerse, il pericolo rappresentato da Netflix Animation o semplicemente la voglia di sperimentare di un nuovo direttore creativo, sembra che per i Pixar Animation Studios si stia aprendo un’epoca più autoriale. Progetti come Luca e Turning Red non sono più soltanto “film Pixar”; sarebbe impossibile scinderli dai loro autori Enrico Casarosa e Domee Shi, e se questo – come pare – si tradurrà in una maggiore varietà in termini di stile, non possiamo che accogliere il futuro con grandi aspettative.
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