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Nimona: ode al mostro, al diverso, a chi sta ai margini. La recensione del film animato

Sette anni, due studi e una delle lavorazioni più travagliate che la storia dell’animazione abbia mai visto, ma finalmente Nimona è qui. Un film tenace come la sua protagonista, che ha lottato per venire alla luce contro tutti gli ostacoli: la produzione difficile presso i Blue Sky Studios, i continui rinvii della data d’uscita, l’acquisizione dello studio da parte di Disney e la conseguente decisione di chiudere i battenti lasciando a casa 450 lavoratori, infine il salvataggio in extremis da parte di Annapurna Pictures e Netflix. Ebbene, Nimona è sopravvissuta e ora ci racconta la sua storia.

Una bella storia, ambientata in un’ucronia che è poi l’aspetto più divertente del fumetto originale di ND Stevenson, in cui ci sono cavalieri e draghi, ma anche Internet, smartphone e auto volanti. Attorno a questo originale regno fantastico, il film costruisce una mitologia, introducendo la leggenda dell’eroina Gloreth e dei suoi cavalieri, che fungono da antefatto per le vicende di Ballister Blackheart, Ambrosius Goldenloin e, ovviamente, di Nimona.

Il team di sceneggiatori ha operato un profondo e attento lavoro di riscrittura del materiale originale: il film cammina sulle sue gambe e si discosta dal fumetto sotto molti aspetti, ma allo stesso tempo sviscera ed esplicita quelle tematiche che in precedenza erano rimaste timidamente velate. Nimona è sempre stata una grande allegoria dell’essere queer: la capacità di mutare forma, dopotutto, non è altro che una metafora della fluidità di genere. La protagonista si rifiuta ostinatamente di fissare la sua esistenza in un unico aspetto: non è una ragazza che può trasformarsi in animale, è solo “Nimona”. In altre parole, non vediamo mai la sua forma “reale”, perché evidentemente tutte le sue forme sono Nimona, e Nimona è tutte le sue forme.

Proprio questo la rende una rappresentazione dell’anomalia, delle proprietà perturbanti e dirompenti del “diverso”, che un po’ ci affascina e un po’ ci fa paura, portandoci al rifiuto perché incapaci di controllarlo, di incasellarlo in qualcosa di familiare. ND Stevenson, tuttavia, scrisse il fumetto molto prima del suo coming out: l’allegoria era chiara, ma forse la sua coscienza necessitava ancora di tempo e maturazione (o forse, c’erano cose che ancora non era pronto a rivelare). Questo film è dunque un’occasione non per riscrivere, ma per espandere, per restituirci una Nimona più consapevole, in cui la tematica queer è ancora più esplicita, reclamata con orgoglio e senza più bisogno di nascondersi. Registi e sceneggiatori non si risparmiano, ma allo stesso tempo sono molto abili a rendere la vicenda il più possibile universale: chi conosce il percorso di vita dell’autore capirà subito qual è la metafora che si sta raccontando, mentre tutti gli altri riconosceranno comunque nel personaggio di Nimona l’emarginato, il diverso, il “mostro” in senso ampio. E non a caso attorno a lei gravitano comunque altri esempi di minoranze discriminate, come la coppia omosessuale formata da Ballister e Ambrosius o la condizione sociale di Ballister stesso, primo civile a entrare nella schiera dei cavalieri di Gloreth e per questo guardato con sospetto.

Notevole anche la componente visiva che Blue Sky ha scelto di accompagnare a questa storia. Occorre sottolineare innanzitutto che lo studio de L’Era Glaciale e Rio è stato tra i primi a proporre una sperimentazione tecnica che virasse verso l’ibridazione di CGI e 2D, seguendo la scia del disneyano Paperman. Nel 2015, ben prima del giustamente osannato Spider-Man: Into the Spider-Verse, Blue Sky costruì una serie di nuovi tool che permisero di ricreare la bidimensionalità delle strisce di Schulz per il film Snoopy & Friends – Il film dei Peanuts. I software includevano specifici rig facciali per controllare gli elementi del viso singolarmente, linee cinetiche, nuove modalità per ottenere il motion blur in CGI e molto altro ancora, tutte tecniche che poi avrebbero fatto la fortuna proprio della saga di Spider-Verse. Curiosamente, uno dei supervisori dell’animazione di Peanuts fu proprio Nick Bruno, che ritroviamo ora come regista di Nimona.

Un peccato quindi che i Blue Sky Studios non siano riusciti a portare a termine questa piccola rivoluzione, che certamente avrebbe segnato un punto di svolta per la loro filmografia. Il loro obiettivo è comunque stato degnamente raggiunto dallo studio DNEG, che fa un ottimo lavoro sia con l’ibridazione 2D/CGI, sia soprattutto con l’esagerazione delle pose e delle espressioni facciali dei personaggi principali (meno curate invece le comparse e le folle). È tutto loro il merito della creazione di questa eroina travolgente: Nimona è uno spettacolo da guardare e da ascoltare (merito di una Chloë Grace Moretz che ci regala l’interpretazione di una vita), imprevedibile, caotica, fortissima, è una protagonista che vorremmo rivedere ancora e ancora. E chissà, il finale dopotutto lascia la porta aperta… non ci dispiacerebbe ritrovarla per nuove avventure.

Irene Rosignoli: