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Disney Corto Circuito, i cortometraggi in cui lo studio torna a osare

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Siamo in un periodo di fermento per l’animazione. Con la nascita di Netflix e delle piattaforme streaming, che hanno promesso ai loro artisti totale libertà creativa per “rubarli” dalle braccia rassicuranti dei grandi studi, qualcosa è cambiato. Le major si stanno piano piano accorgendo che il sistema executive-driven (cioè quello che comporta fortissime ingerenze dai dirigenti, compromettendo le possibilità artistiche dei creatori) non potrà funzionare a lungo, a meno che non si abbia alle spalle un brand forte come Disney o Pixar. Sony Animation è stata la prima a prendere una posizione netta, vincendo la battaglia su tutti i fronti grazie a Spider-Man: Into the Spiderverse e dimostrando che esiste un altro modo di fare cinema, un modo che metta di nuovo al centro i creatori e gli artisti.

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In Disney questo processo tarda ad avviarsi: da Rapunzel in poi gli studi hanno sviluppato un house style efficace, che ha saputo tradurre benissimo in computer grafica l’appeal del loro tradizionale disegno a mano, ma che è arrivato sostanzialmente a un livello di stasi. Pensiamoci: La Bella e la Bestia ha un look completamente diverso da Pocahontas, e entrambi hanno poco e nulla in comune con Hercules o con Cenerentola, ma tutti quanti sono indubbiamente “Disney” a colpo d’occhio. All’epoca, in effetti, lo stile veniva adattato sapientemente all’art direction, ossia rielaborato (a partire da un linguaggio condiviso tra studio e spettatore) secondo il gusto di un particolare regista o disegnatore. Al momento invece, con la notevole eccezione di Ralph Spaccatutto e specialmente del suo sequel Ralph Spacca Internet, i “nuovi classici” potrebbero tranquillamente essere ambientati tutti nello stesso universo. E a ben guardare non sono poi così diversi esteticamente da quelli dei loro colleghi Pixar e DreamWorks Animation, almeno all’occhio dello spettatore occasionale.

L’esistenza di un progetto come Disney Corto Circuito mira proprio a restituire ai Walt Disney Animation Studios un territorio di sperimentazione. Si tratta di un programma di cortometraggi aperto ai membri dello studio in senso ampio: tutti (ma proprio tutti, persino gli inservienti e gli addetti alle pulizie) sono liberi di proporre un soggetto per un corto, e di avere quindi la possibilità di essere selezionati per diventare aspiranti registi. Un’iniziativa importante; del resto, non c’è persona al mondo che non conosca i classici Disney, ma chi segue l’industria sa che spesso le vere chicche si trovano nei corti. Per due motivi principali: il primo è che i corti sono da sempre la fucina dove vengono create le nuove tecniche, i nuovi software, dove vengono orchestrate le prove generali di tutto ciò che verrà poi raffinato in un lungo; il secondo è che i corti hanno un budget ridotto, spesso risicato, e questo è un bene, perché avere restrizioni porta l’artista a trovare soluzioni creative per aggirarle.

C’è molto di buono nei cortometraggi di Disney Corto Circuito, e decisamente molto talento che la CCO Jennifer Lee dovrà tenere a mente per i prossimi lungometraggi. L’aspetto più interessante è sicuramente come ogni artista sia riuscito a portare non solo la propria storia, ma anche il proprio background artistico: abbiamo corti ispirati al fumetto, alla street art, alle stampe cinesi e molto altro ancora. La varietà è talmente ampia che i meno interessanti (anche se comunque gradevoli) risultano essere proprio quelli più tipicamente disneyani, come Lucky Toupée o Fetch.

Per il resto, in Disney Corto Circuito si sperimenta un po’ con tutto: sintesi tra stilizzazione cromatica e fotorealismo (Puddles), effetti visivi (Lightning in a Bottle, Drop e Zenith), camera work e dinamismo (Downtown, un risultato veramente notevole per un esordiente), texture ed effetto acquarello/inchiostro (Jing Hua), senza dimenticare la straordinaria tecnica Meander, che dopo Paperman e Winston è stata inspiegabilmente accantonata e che in Elephant in the Room mostra di aver raggiunto una maturità significativa per quanto riguarda design, movimento e ora anche uso del colore.

Chi scrive però ritiene indubbiamente Just a Thought il migliore del gruppo. Con un’estetica ispirata alle strisce a fumetti, il corto racconta la storia di un bambino i cui pensieri prendono vita diventando visibili in un vero e proprio balloon sospeso sopra di lui, situazione che gli causerà non pochi guai quando si innamorerà di una compagna di classe. Semplice ed efficace, l’opera porta allo step successivo il tratto Disney dimostrando che si può osare con un’altra estetica, che un’altra texture può rendere la CGI Disney ugualmente riconoscibile; soprattutto fa quello che un corto Disney per eccellenza dovrebbe fare: prendere una situazione della realtà di tutti i giorni e immaginare un “what if”, giocando con ironia e sagacia su qualcosa che è familiare a tutti gli spettatori. Bellissimo.

Foto: © Disney+/Walt Disney Animation Studios

Irene Rosignoli: