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Tornare a Wonderland con Tim Burton – Riflessioni su Alice in Wonderland

Articolo a cura di Andrea Di Cosmo.

Quando fu annunciata una sorta di remake dal vivo del classico Disney del 1951: Alice nel Paese delle Meraviglie affidato alla regia di Tim Burton, la cosa fu accolta con una curiosità generalmente positiva. Dopotutto l’unica altra operazione simile era stato il rifacimento de La Carica dei 101 anni prima e, soprattutto il visionario regista sembrava tra i più adatti a reinterpretare quel mondo che già nella visione degli studi Disney aveva fatto discutere rispetto all’interpretazione originale dell’autore dei libri: Lewis Carroll.

Alice in Wonderland prende una Alice che torna al Paese delle Meraviglie anni dopo la prima volta che c’era già stata da bambina. Il film riprende lo stile di Tim Burton dal punto di vista narrativo ed estetico, in senso visivo. C’è la sua fantasia, i suoi personaggi, il suo stile da fiaba gotica nel raccontare.

Il prologo introduttivo serve a vedere la protagonista mal sopportare le asfissianti atmosfere inglesi vittoriane ma la vicenda entra nel vivo quando Alice precipita finalmente nel sottomondo dove trova un Paese stravolto e intristito. Gli abitanti sono pallidi ricordi del mondo incantato e folle che ricordava e la Regina Rossa è diventata decisamente dispotica e tiranna oltre che dalle volontà assurde.

Il film si svolge come un fantasy con tutti gli ingredienti del caso che consentono allo spettatore di seguire la storia che è divenuta quella dell’eroina che si batte per salvare il Paese dalla Regina Rossa; percorso che prevede pure un epico combattimento con un drago. Tra incantesimi, missione dell’eroina, strumenti magici, contrapposizione di magia positiva e negativa, il bene e il male, il film si segue, infatti, come una storia di quel genere ma che con i materiali di partenza diverge abbastanza.

Al di là delle suggestioni visive il prodotto è sembrato quindi alquanto convenzionale, una storia come tante anche se ben recitata, in particolare la Regina Rossa, interpretata da Helena Boham Carter, musa allora onnipresente del regista con una menzione per le sue rane simpaticissime.

Il Cappellaio Matto interpretato da Johnny Depp è folle quanto basta, anche se il personaggio in virtù del divo che lo interpreta ha più scene del previsto. Una di queste scene è quella della deliranza, una danza un po’ fuori posto con una musica fuori contesto così come i passi che possono far pensare agli anni Settanta o un tentativo di omaggio del regista alla memoria di Michael Jackson.

Alice resta una protagonista poco convinta e un po’ freddina per tutta la vicenda, un po’ più motivata nella lotta col drago, perché altrimenti morirebbe probabilmente, e tutto sommato l’impressione generale è di un allontanamento maggiore, mentalmente e emotivamente, dal Paese delle Meraviglie.

La chiave di comprensione del film è il racconto di un ritorno di Alice alle Meraviglie, ma ora lei è più adulta, ha i suoi dubbi sulla vita reale; così anche l’incontro con le creature fantastiche della sua avventura precedente, nel Paese sottoterra, diventa una missione per aiutare un mondo dove la gioia della follia ha lasciato spazio alla tristezza di una guerra interna e anche la stessa Alice, dopo questo nuovo confronto con il mondo incantato incontrato da bambina sembra farne i conti per emanciparsene definitivamente e vivere definitivamente la realtà del mondo di fuori. Gli accostamenti della vicenda alla meraviglia, la fantasia ed il sogno si stemperano nella materialità della vita, sì fiduciosa ma prosaicamente reale, meno incantevole e un po’ più triste.

Un film visivamente bello, abbastanza scorrevole, non molto emozionante ma piuttosto prevedibile. Cosa resterà nella storia del cinema in generale se non come una delle versioni di Alice e uno dei film di Burton?

Tutto questo si può dire senza considerare il contesto di riferimento e le aspettative iniziali ma trattandosi di un film che si intitola Alice In Wonderland, girato da un regista che si chiama Tim Burton per una produzione Disney, se si vuole considerare questo, penso sia lecito considerare anche altre cose intorno al risultato finale di questo film.

Se da quando è stato annunciato fino alla sua uscita a tutto il mondo è stato comunicato che Tim Burton avrebbe raccontato Alice nel Paese delle Meraviglie e il film finale ne riporta quel titolo è anche normale che molti sperassero che fosse così, tanto più che Burton era sembrato il regista più adatto ad avere una nuova Alice sessant’anni dopo il film Disney.

Abbiamo potuto rapidamente vedere come il discorso sia differente e pur comprendendo le motivazioni di questa rilettura mi son ritrovato ad ogni scena a sperare che partisse un gioco linguistico arguto e apparentemente senza senso. Se la versione Disney aveva pensato di inserire le canzoni nel film, meccanismo peraltro di molti film Disney, in questo di Burton non ci sono né le canzoncine che potevamo aspettarci né un tentativo di rendere la ricchezza del gioco linguistico di Carroll. I personaggi parlano in modo molto diretto e semplice vivendo l’avventura sullo sfondo del confronto tra bene e male contrapposti, incarnati dalla Regina Rossa e Bianca, che sembrano ricordare le streghe del Mago di Oz mentre scopriamo un conflitto tra sorelle, volendo un po’ tenero. Sarà un caso che la politica dei live action Disney si orienterà successivamente proprio sul prologo del Mago di Oz?

Avrei voluto sorprendermi nell’incontrare i personaggi bizzarri da scoprire pian piano; mentre sono invece esibiti quasi casualmente, spesso in gruppo, soprattutto all’inizio quando accolgono Alice all’ingresso di Sottomondo. Poi non si trova di meglio di sceglierne alcuni che vengono scelti per affiancare Alice come aiutanti comprimari.

La pesantezza generale del contesto del Paese oppresso dalla Regina Rossa impedisce lo sviluppo dell’originale follia dei personaggi così come concepiti in origine mentre sono invece impegnati ad aiutare la missione di Alice. Così il Cappellaio Matto diventa un prigioniero da salvare e preso in quanto tale, con questo taglio che il film ha, sarebbe pure un bel personaggio malinconico, solo che è diventato altro.

La rielaborazione di Alice adulta è un po’ un saluto affettuoso e triste al mondo delle Meraviglie e della fantasia con l’ingresso nella vita adulta e nel mondo reale, almeno così sembra. Se può essere commovente anche questo, si può anche ricordare che Alice nel Paese delle Meraviglie ha la sua originalità nel presentare il piacere dell’irrazionalità con un’ironia verso la rigida società impostata che Alice è costretta a vivere e da cui fugge nel viaggio verso il luogo dove tutto è invertito e senza senso. Un luogo dove gli animali parlano e hanno ruoli in cui l’umana Alice è messa in difficoltà con improvvisi cambi di statura, mentre in questo film Alice è pronta a cambiare a comando, non è più vittima delle stranezze ma riesce a padroneggiarle come stratega, ma qui mi si potrà dire che questa è un’abilità dell’Alice adulta di questa versione.

Così nessuno terrorizza Alice miniaturizzata nelle forme di animali bizzarri come un bruco che fuma il narghilè: il Brucaliffo nel film è dipinto come vecchio e stanco, praticamente assente dalla storia.

Anche le Carte da gioco che erano state la Corte della Regina di Cuori avrebbero dovuto essere un’altra proiezione visiva del mondo dove Alice, divenuta vulnerabile, scopre che le innocue carte da gioco sono delle guardie che la cercano per tagliarle la testa. Nel film di Burton invece le carte indossano una spessa armatura, in linea con la cupa atmosfera di guerra della storia, e anche visivamente perdono la bellezza di un simbolo del mazzo di carte che si mescola e all’occorrenza farle tornare a essere carte da gioco. Mentre qui l’esercito di carte è anonimo, non si vedono i simboli dei semi delle carte, non si vede praticamente che sono carte ma sono semplicemente un esercito.

Eppure la tecnologia digitale avrebbe potuto rendere delle carte bellissime e credibili quando già, senza riprendere solo il classico del 1951, un po’ di effetto Wonderland si era raggiunto nel cortometraggio di Mickey Mouse Thru the Mirror ( Attraverso lo specchio) del 1936, dove in un semplice corto di tanto tempo fa vediamo Topolino ballare con le carte e interagire con altre creature fantastiche.

Quella era la magia di Walt Disney vivente probabilmente. Abbiamo sperato che Tim Burton potesse regalarci un altro sogno, per alcuni è stato così, io ho visto un film convenzionale che ha banalizzato la ricchezza del materiale letterario originale. Non voglio dire propriamente che il film sia banale perché ha le sue bellezze, soprattutto visive, e si lascia guardare. Dico che è stata banalizzata la fonte e annullato il potenziale di un film che oltretutto è girato da Tim Burton, dal quale è pure lecito avere delle aspettative sul genere, anzi la storia di Alice nel Paese delle Meraviglie sembrava l’ideale per lui da portare sullo schermo.

Sarebbe stato bellissimo avere una nuova “Alice nel Paese delle Meraviglie” firmata da Burton, il quale, pur essendo un regista dallo stile riconoscibile, avrebbe pure potuto cercare di rendere i libri di Carroll come si conviene quando ci si accosta a un classico così particolare nel linguaggio e nell’immaginario.

Non basta però prendere quei personaggi per fare il Paese delle Meraviglie, che è fatto di uno spirito e di uno stile che essendo unico, soprattutto nel nonsense, è stato un peccato perdere in favore di una qualunque avventura fantasy, già vista.

Adattare pure Alice attraverso lo specchio, sfruttando il filone finché piace, cos’altro ci farà vedere?

Clicca qui per leggere la nostra recensione di Alice attraverso lo specchio

Irene Rosignoli: