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Recensione: Phineas e Ferb, questa volta è Candace la star

Nell’eterno dibattito sull’animazione, le grandi major provano a convincere il pubblico che ciò che non è in CGI non vende, mentre gli appassionati cercano rifugio in produzioni indipendenti e sperimentali. Ma può un prodotto ben scritto affermarsi anche se in contrasto con le tendenze del momento? La risposta è sì. E, con i loro Phineas e Ferb, Dan Povenmire e Jeff “Swampy” Marsh ce lo dimostrano da tempo.

A cinque anni di distanza dall’ultimo episodio della serie, i due fratelli tornano alla ribalta su Disney+ con una nuova e inedita avventura di circa un’ora e mezza, Candace contro l’universo. Mandiam subito giù il boccone più amaro: malgrado la portata degli eventi narrati, questi non raggiungono l’epicità di Nella seconda dimensione. Ma lo storytelling messo in campo riesce, pur calcando una serie di dinamiche ben consolidate, a superare se stesso ancora una volta, regalando un risultato familiare e ammiccante, ma allo stesso tempo sorprendente.

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La vicenda non poteva che aprirsi con uno dei più classici cliché narrativi della serie. Candace fallisce, per l’ennesima volta, nel tentativo di mostrare a sua madre l’ultima stravagante invenzione creata da Phineas e Ferb. Ma da qui, invece che passare ai titoli di coda, inizia a prendere vita una catena di eventi inattesa, che porterà i protagonisti a viaggiare nello spazio, incontrare originali razze aliene, collaborare con il Dr. Doofenshmirtz e salvare il mondo.

Normale amministrazione per i fratelli più famosi di Danville, insomma. Molto più insolito è, invece, il livello di introspezione dedicato a Candace, la vera protagonista del film. Perché è così ossessionata dal riuscire a far beccare Phineas e Ferb? Possibile che questa mania sia solo un diversivo rispetto al reale problema, riguardante il modo in cui la ragazza percepisce se stessa? E, dal canto loro, Phineas e Ferb hanno mai realmente riflettuto su come si senta la loro sorella maggiore? Dall’usuale baraonda di risate e canzoni, insomma, emerge uno spaccato sulla ricerca del proprio posto nel mondo. O meglio, nell’universo. Una riflessione su cosa siamo disposti a fare per sentirci speciali e su cosa ci rende davvero tali.

L’evoluzione dello storytelling, però, si riscontra anche negli aspetti più comici della pellicola. I classici tormentoni, l’intelligente citazionismo e i consueti espedienti grotteschi evolvono il loro potenziale in un meraviglioso e frequente sfondamento della quarta parete. In più di un momento, i personaggi si mostrano consapevoli dell’essere parte di un film e reagiscono di conseguenza alle trovate assurde degli animatori. L’apice si raggiunge a pochi minuti dallo scoccare della prima ora: una breve sequenza di rara e pregiata ironia, perfettamente collocata nel flow narrativo, che funge da omaggio stesso alla serie, ai suoi creatori e al mondo dell’animazione in generale.

A 13 anni dal loro debutto, Povenmire e Swampy vincono nuovamente la scommessa, coadiuvati dall’ottima regia di Bob Bowen. In totale controtendenza rispetto all’animazione mainstream, superano i loro stessi standard, avvalendosi del solito art style creativo e stilizzato, e riproponendo un’ulteriore rielaborazione dei loro cliché umoristici e narrativi più apprezzati. E tutto ciò ci riporta al punto di partenza. Una solida e ponderata scrittura trascende periodi e tendenze ed è in grado di mostrare, in cornici demenziali e grottesche, sentimenti forti e temi importanti. Al prezzo forse di gag meno intuitive e virali, la risata strappata da quel turbinio di paradossi messi in campo è autentica e raffinata.

È incredibile constatare come, ogni volta, Povenmire e Swampy riescano a tornare nella notissima Danville, tra quei personaggi e le loro ben consolidate dinamiche, raccoglierne nuovamente tormentoni e frasi celebri, per riproporli in chiavi completamente nuove. Il tutto senza mai scuotere le fondamenta del loro narrativo. Chissà cosa sarebbero in grado di creare con mezzi, budget e ambizioni da grande schermo.

Lorenzo Dottorini: