Quando nel 2012 la Disney realizzò il cortometraggio Paperman, sembrava di vedere sullo schermo il futuro dell’animazione. Per molto tempo si era cercata una soluzione che fosse in grado di prendere il meglio dell’animazione a mano e della computer grafica, e di far interagire le due tecniche in una maniera del tutto innovativa. C’era molto fermento attorno a Paperman e alle possibilità future a cui avrebbe potuto spianare la strada, e invece di lì a poco la sperimentazione attorno alla tecnica Meander si è spenta, e da allora su quel fronte tutto tace.
Negli anni ci sono stati altri tentativi di dare uno scossone all’animazione mainstream e di proporre un’estetica che deviasse dallo standard pixariano (sempre più tendente verso il fotorealismo e verso il live action): pensiamo ad esempio al film dei Peanuts della Blue Sky, a Capitan Mutanda della DreamWorks o alla saga di Hotel Transylvania di Genndy Tartakovsky. Ma mai nessuno si era spinto dove ha osato spingersi Spider-Man: Un nuovo universo, un film talmente distante da tutto ciò che abbiamo visto al cinema negli ultimi quindici anni che viene da chiedersi come accidenti abbiano fatto quei geniacci di Phil Lord e Chris Miller a ottenere il via libera da Sony Pictures Animation per un prodotto del genere.
Non si esagera certo nel dire che Into the Spider-Verse è la risposta a tutto ciò che gli appassionati di animazione hanno auspicato nell’ultimo decennio, e probabilmente anche di più. Un film che recupera la linea, il dinamismo e l’imperfezione del disegno a mano, ma senza rinunciare alle forme, ai volumi e agli spazi tridimensionali della computer grafica. Un film che finalmente non sacrifica il lavoro di tanti concept artist e production designer realizzandone la pallida imitazione al computer, ma lo sfoggia con orgoglio fino a concepire una lunga sequenza finale composta praticamente solo da macchie di colore (e a tal proposito, in un mondo giusto Justin K.Thompson vincerebbe l’Oscar al miglior production design). Un film che non solo propone uno stile totalmente controcorrente rispetto allo standard, ma addirittura riesce a farne coesistere di molteplici all’interno della stessa pellicola (basti osservare come i sei protagonisti non solo siano animati ognuno in maniera diversa, ma possiedano una texture che li contraddistingue, in maniera disarmonica come se venissero da film diversi).
È stato detto che si tratta del miglior modo di fare un cinecomic, perché il naturale passaggio dal fumetto al grande schermo è l’animazione, e questo è probabilmente vero. Ma, posto che ci troviamo davanti a uno dei migliori film di supereroi mai realizzati, l’impressione è che la “scusa” del cinecomic sia stata per Lord, Miller e i tre registi Ramsey, Persichetti e Rothman soltanto un pretesto per andare all in con tutte le potenzialità del mezzo dell’animazione. Quale occasione migliore dell’adattamento di un fumetto per recuperare tutto ciò che è stato standardizzato e uniformato dalla computer grafica “tradizionale” negli ultimi anni? Spider-Man: Un nuovo universo è un rischio meraviglioso e il prodotto di un modo di fare cinema che forse non esisteva più a quei livelli e con quei budget. Proprio per questo, la prossima sfida dell’animazione dev’essere quella di applicare questo stile e questo metodo produttivo a una storia originale. Solo allora si tornerà finalmente a correre rischi, solo allora si tornerà finalmente a fare Animazione.
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