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Wish: esiste ancora la “magia Disney”? La recensione del film che celebra i 100 anni

È un anno sfortunato per Disney. Che questo periodo coincida con quello del 100° anniversario dell’azienda è davvero triste ironia, tuttavia non è la prima volta che un danno all’immagine porta alla disaffezione del pubblico, e la cura molto spesso è solo una: togliersi dalla testa che Disney sia un monolite unitario, e guardare al percorso e alla filmografia dei singoli studi, riabilitando chi ha sempre lavorato bene e coerentemente con la propria poetica. È il caso ad esempio dei Walt Disney Animation Studios, che in quest’anno propongono al cinema Wish, una “fiaba delle fiabe”, un origin story semplice, a tratti maldestra e con tanto cuore, che vuole riflettere proprio su questo: che cosa significa essere Disney nel 2023, con cento anni di storia alle spalle.

Non possiamo che partire dalla tecnica, di cui la critica – ingiustamente – non sta parlando, e che quindi nomineremo per prima. Wish porta a compimento un percorso che partiva da Paperman (2012) e che finora si era ritagliato qualche spiraglio qua e là, senza mai riuscire a sfociare nel tanto agognato lungometraggio. La gestione scellerata da parte dei piani alti ha fatto sì che una tecnica di cui i Walt Disney Animation Studios erano stati pionieri sia stata adottata e perfezionata prima e meglio da altri studi, dando vita a una rivoluzione dell’animazione in cui a rimanere indietro sono stati proprio coloro che l’avevano inventata, destinati a ripetere ancora e ancora lo stesso “modello Frozen”. Stavolta però ci siamo veramente: Wish riesce a trovare il compromesso tra linea e tridimensionalità e lo applica all’eleganza della character animation Disney. Il lavoro sui personaggi a dir la verità ha ancora qualche sbavatura, mentre a risaltare sono soprattutto gli splendidi fondali che omaggiano il grandissimo concept artist Gustaf Tenggren (Biancaneve, Pinocchio). Dietro a questa meraviglia c’è il production designer Michael Giaimo, che lavora a questa tecnica pittorica dai tempi del mai realizzato Rapunzel Unbraided e del quale finalmente possiamo ammirare la visione senza filtri e senza trasposizioni penalizzate dalla CGI. Notevole anche il lavoro del reparto VFX, che integra a meraviglia degli effetti pseudo-bidimensionali e che soprattutto realizza quel piccolo capolavoro della stellina Star.

La storia è invece la componente più incerta e traballante dell’opera. L’obiettivo conclamato del film è quello di proporre un racconto semplice, che richiami le fiabe classiche, senza particolari twist o complessità. La banalità è solo apparente, ovviamente: Wish è in realtà un film pieno di finezze che si nascondono sotto la superficie (bellissimo, ad esempio, il rovesciamento della tradizionale canzone d’amore Disney, che qui diventa un duetto tra la protagonista e il cattivo, in cui l’oggetto dell’interesse amoroso è… il popolo di Rosas). Ma è anche un film di Jennifer Lee, con tutti i difetti che questa sceneggiatrice si è sempre portata dietro. A fronte di una forte sensibilità nella creazione dei personaggi, non sempre l’autrice riesce a bilanciare i diversi toni del racconto; a farne le spese qui è soprattutto la tensione drammatica, che sembra sempre sul punto di decollare ma non centra mai totalmente il bersaglio. Gli ostacoli si superano con grande facilità, l’antagonista si limita a qualche ghigno e minaccia e in generale c’è un senso di rassicurazione e sicurezza, anche laddove si dovrebbe temere per la sorte dei protagonisti. Dai tempi di Frozen, poi, Lee è solita descrivere o commentare verbalmente ciò che accade sullo schermo, una pratica ingenua e francamente proprio sbagliata per un film d’animazione. In un cartoon, a parlare e suggerire l’azione dovrebbe essere anzitutto l’immagine: i suoi personaggi, invece, non fanno mai silenzio, rimarcando continuamente l’ovvio e finendo per spezzare potenziali momenti contemplativi.

Pregi e difetti, dunque, ma non c’è dubbio che sia un prodotto creato con cura e amore. Wish è un’opera importante, che è insieme tributo, film manifesto, ponte e spartiacque tra passato e presente. Lungi dall’essere una fredda marchetta o una parata di easter egg, riesce in un’impresa difficile: omaggiare quello che Disney è stata, e allo stesso tempo costruire nuove fondamenta reinventando una tradizione che ha costante bisogno di rinnovarsi. Il miracolo è che questo avvenga, coerentemente, su tutti i fronti: non solo quello narrativo e quello visuale, ma persino quello simbolico. Senza “spoilerare” troppo, il ruolo che l’eroina Asha assume nel pantheon Disney è una dichiarazione d’intenti coraggiosa, che riposiziona lo studio su un piano storico e ideologico moderno, creando però un filo diretto con la sua eredità. Dunque si è detto che Disney si è persa: può forse valere per la Company e le sue mille anime conflittuali, ma non certo per i Walt Disney Animation Studios, che proprio con Wish dimostrano – seppur in maniera ingenua e non priva di compromessi – di aver molto chiaro da dove vengono e dove stanno andando.

Irene Rosignoli: