Tra gli ospiti più attesi nell’ambito di View Conference 2015: Kim White, responsabile dell’illuminazione e direttrice della fotografia di “Inside Out”. Nel corso del panel ha cercato di spiegarci brevemente come lavora il reparto illuminazione della Pixar per poi concentrarsi maggiormente su quanto realizzato per l’ultimo capolavoro di Pete Docter.
Il principale obiettivo è di supportare con la luce la narrazione, suggerendo ad esempio come guardare una determinata sequenza, o enfatizzando i colori, o sottolineando quali personaggi sono in primo piano e quali sullo sfondo. Si lavora a stretto contatto con gli altri reparti, soprattutto con registi e production designer nel tentativo di interpretare le loro idee; ma si collabora anche con gli animatori e i character designer per testare eventuali modifiche al look dei personaggi.
Gestire l’illuminazione è una vera e propria arte oltre che qualcosa di molto tecnico. Ciò è stato evidente nel momento in cui ci sono state mostrate alcune scene prima dell’illuminazione definitiva (master lightning) e la loro successiva metamorfosi una volta applicato l’assetto luci finale (shot lightning). Fondamentali secondo la White anche gli strumenti messi a loro disposizione (soprattutto a livello di software) che hanno possibilità pressoché infinite “rendendo possibile realizzare qualsiasi cosa immaginabile”: in un’unica sequenza potrebbero essere inserite addirittura 100 luci diverse. Ma è davvero così importante averne in campo una quantità così consistente? Assolutamente sì, per mettere in pratica quello che viene denominato “split delle luci”: si tratta appunto di illuminare diversi oggetti e personaggi per mezzo di differenti sorgenti luminose, in modo da venire incontro alle esigenze specifiche di ogni elemento della scena.
Le sfide principali per “Inside Out” sono state la realizzazione di due mondi contrapposti ma collegati, e la creazione del personaggio di Gioia che è ella stessa una fonte di luce.
La mente di Riley e il mondo reale, due dimensioni talmente diverse da far venire meno le perplessità iniziali relative al rischio che il pubblico si perdesse nel continuo passaggio da interno a esterno e viceversa. In particolare il mondo interiore era qualcosa da inventare totalmente dal nulla e il cui aspetto dipende molto dalle luci messe in campo, anche per distinguere i vari ambienti che lo compongono e scandire le parti della giornata.
Molte ispirazioni sono state attinte dal mondo disneyano stesso: Pete Docter e Ralph Eggleston (Production Designer di “Inside Out”) sono dei grandi appassionati dei film Disney degli anni ’40 e ’50 e si sono basati molto sul lavoro di Mary Blair. In particolare c’è diverso materiale ispirato al Classico “Alice nel Paese delle Meraviglie” (ci è stata mostrata come esempio la scena della canzone “Very Good Advice”. Lì i personaggi attorno alla protagonista scompaiono gradualmente; quindi cambiano luci e atmosfera e compare lo Stregatto. Questa sequenza ha ispirato sia le luci per il subconscio, sia per contrasto la formazione del primo ricordo di Riley che, percorrendo i binari, illumina progressicamente l’ambiente) e lo stesso design dei marchingegni meccanici presenti nel centro di controllo sono stati creati basandosi sullo stile della Blair. Ma ancora, per creare l’illuminazione del subconscio, ci si è ispirati alle dark ride dei parchi Disney dove, in un ambiente pressoché buio, ci sono degli elementi in luce che risaltano subito, anche grazie a colori fluorescenti e particolari tipi di lampade, mentre il resto diventa a mano a mano visibile mentre il veicolo vi transita accanto (ci è stata mostrata come esempio una fotografia scattata sul percorso di “The Many Adventures of Winnie The Pooh”, attrazione presente nei parchi americani e a Hong Kong).
Per quanto riguarda Gioia ci troviamo di fronte a un personaggio pieno di luce e sul quale è stato difficile lavorare soprattutto per quanto riguarda le ombre (senza di queste avrebbe avuto un look molto piatto). Quella dell’essere a sua volta una fonte luminosa è una caratteristica molto interessante in quanto ha aperto la strada a diverse possibilità creative (la gag davanti alla porta del subconscio: le guardie non possono non accorgersi di lei!).
Altri elementi che brillano di luce propria sono i ricordi: l’intensità del loro bagliore cambia a seconda dell’illuminazione generale dell’ambiente e di chi o cosa si trova in primo piano. I ricordi base sono più luminosi perché devono essere più facilmente riconoscibili. Spesso la luce proveniente dalle sfere è molto forte e sfocata cosicché lo spettatore sia portato a focalizzarsi su altro (ad esempio quando Gioia, aggirandosi tra gli scaffali della memoria a lungo termine, cammina trasportando i ricordi base: il pubblico deve concentrarsi su di lei e sugli altri personaggi, non sul contenuto di ciò che porta in braccio). Ma quando si tratta di visualizzare i ricordi, questa forte luminosità va attenuata a mano mano che l’inquadratura si avvicina gradualmente alla sfera, permettendo quindi di guardare il breve flashback che vi è contenuto.
Finito il panel, durante la round table, sono state sollevate altre interessanti questioni.
Nella scena del pensiero astratto vediamo il passaggio da personaggi animati in CGI a figure in 2D. Quanto è stato difficile lavorare a questo procedimento?
Molto difficile, divertente e difficile. Dovevamo passare dal 3D al 2D in modo più naturale possibile senza che ci si rendesse troppo conto di questo passaggio. In particolare dovevamo capire come realizzare le ombre affinché le figure bidimensionali non sembrassero animate in una sorta di versione datata della CGI. A tutta la sequenza ha lavorato un’unica persona per rendere tutto più semplice e per non rischiare che ci fossero elementi in contrasto.
Sappiamo che il disegno di Bing Bong che vediamo raffigurato su un muro a casa di Riley, è stato realizzato da tua figlia…
Ah sì! Tutto è iniziato quando, a un certo punto della lavorazione, abbiamo visto una proiezione del il materiale realizzato fino ad allora in sequenza. Arrivati alla scena in cui Riley disegna sul muro Bing Bong, ho chiesto se per caso avessero bisogno di un disegno fatto realmente da una bambina. Mi hanno risposto di sì poiché tutte le prove che avevano realizzato apparivano sempre come disegni di adulti che cercavano di imitare lo stile dei bambini. Così sono andata a casa, ho portato dei fogli a mia figlia, le ho fatto vedere qualche immagine di Bing Bong e le ho chiesto di disegnarlo. Quando ho portato il suo lavoro in studio erano tutti entusiasti poiché rispecchiava esattamente ciò che stavano cercando.
Prima, durante il panel, hai detto che il lavoro compiuto per illuminare “Inside Out”, soprattutto nel dover creare un mondo completamente inventato, è stato molto più complicato di ciò che hai realizzato ad esempio per “Toy Story 3”. Effettivamente stavolta hai avuto a che fare con un mondo molto particolare. Volevo chiederti secondo te su quale altro genere di mondo dovresti trovarti a lavorare affinché ciò che hai fatto per “Inside Out” appaia come qualcosa di semplice?
Domanda davvero difficile! Devo pensarci un attimo! In realtà credo che qualsiasi mondo completamente inventato da zero sarebbe una nuova sfida da realizzare. Bisogna creare tutto dal nulla e costruire il suo “linguaggio” a mano a mano che si ha a che fare con esso.
Puoi parlarci più nel dettaglio della sequenza nel dimenticatoio?
È stata una scena molto difficile. Dovevamo capire tante cose, che aspetto dovevano avere questi ricordi morenti, da dove provenisse la luce. Abbiamo dedicato molta attenzione anche a Gioia, poiché lì è una delle fonti luminose principali e rischiara anche ciò che le si trova attorno come Bing Bong e le sfere grigie. Molto difficile è stata anche la scena della fuga dalla discarica grazie al razzo: in quel momento c’è un forte contrasto tra il buio dell’ambiente e la luce dell’arcobaleno del razzo. In generale poi, a creare un’ulteriore difficoltà, c’era il fatto che si trattasse di una delle prime sequenze sulle quali lavoravamo: bisognava iniziare ad immaginare tutto ciò che c’era attorno.
Una delle critiche più forti che sono state mosse verso “Inside Out” è il livello di complessità del messaggio e della trama in generale. Cosa ne pensi anche in relazione al lavoro svolto nel reparto illuminazione?
Noi ci siamo preoccupati soltanto di seguire la storia e lavorarvi in modo da rendere possibile al pubblico di godersela nel migliore dei modi, senza farci domande sul target a cui il film poteva essere rivolto. Secondo me un buon film contiene un messaggio che può essere colto anche quando si è bambini, e in questo ci siamo riusciti in quanto ai bambini è chiara la dinamica delle emozioni e il fatto che “prendono il controllo” del centro di comando alternandosi a seconda della situazione. Ma per essere davvero un buon film, deve essere possibile trovarvi altri messaggi riguardandolo da adulti.
Perché le emozioni di Riley sono sia maschili sia femminili a differenza ad esempio di quelle della madre e del padre?
Quando si è piccoli, molti aspetti della personalità non sono ancora fissati in modo definitivo come quando si è adulti. C’è molta più flessibilità, è molto più probabile che le cose cambino e che quindi le emozioni possano diventare tutte di un unico genere. Così come è possibile che Gioia non sia più l’emozione principale a comando della sala di controllo.
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