1989: sono passati più di trent’anni dal classico che rivoluzionò il destino dei Walt Disney Animation Studios, spalancando le porte del cosiddetto Rinascimento Disney e creando una nuova formula, quella del racconto musicale in stile Broadway, di cui ancora oggi vediamo gli effetti. Tantissime sono le caratteristiche che hanno reso la storia di Ariel immortale, ma vediamo insieme cinque interessanti motivi per cui La Sirenetta ha salvato la Disney.
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Il ritorno delle principesse Disney
Ogni momento di crisi della storia quasi centenaria dei Walt Disney Animation Studios è stato bene o male risolto allo stesso modo: tornando alle origini. E nello specifico alla felice intuizione con cui il fondatore era riuscito a dimostrare al mondo che l’animazione non fosse soltanto personaggi buffi, gag slapstick e risate: una fiaba epica con protagonista una principessa. È successo negli anni ’50, quando Cenerentola ha dato il via a una nuova età dell’oro dopo la Seconda Guerra Mondiale, ed è successo persino in tempi più recenti con La Principessa e il Ranocchio e Rapunzel – L’intreccio della torre. Ma pochi di questi classici sono stati provvidenziali come lo fu La Sirenetta nel 1989.
Dopo i successi modesti della fine degli anni ’70 e degli anni ’80, segnati dall’incredibile tonfo di Taron e la pentola magica, era a rischio la sopravvivenza stessa dello studio: la multinazionale stava andando bene in molti altri campi, che bisogno c’era di tenere in vita il ramo morto dei film animati, che sembravano non interessare più così tanto? A salvare la situazione fu il duo di registi formato da Ron Clements e John Musker che, forte del piccolo successo di Basil l’Investigatopo nel 1986, azzardò una proposta audace: un adattamento de La Sirenetta, una fiaba classica che già Walt Disney aveva adocchiato negli anni ’30. Inutile dire che il resto è storia: non solo la principessa Ariel si assicurò il futuro dello studio, ma diede anche l’impulso creativo per uno dei suoi periodi più floridi in assoluto, il cosidetto Rinascimento Disney, costellato da capolavori come La Bella e la Bestia, Aladdin e Il Re Leone. E ovviamente consacrò una volta per tutte la stella di Musker e Clements, che negli anni seguenti avrebbero diretto altre perle come lo stesso Aladdin, Hercules e Il Pianeta del Tesoro.
Un’eroina moderna
Molto del successo della pellicola è dovuto senza dubbio alla maestria degli artisti per quanto riguarda la caratterizzazione della sirena Ariel. Sono passati trent’anni dall’ultima principessa Disney, La bella addormentata nel bosco, e nel frattempo sono cambiate le esigenze del pubblico e soprattutto le tecniche di animazione, capaci di dare nuova freschezza e modernità alle espressioni e alle movenze. Di conseguenza Ariel è un personaggio molto più vicino alle ragazzine degli anni ’80/’90: prima di essere una principessa è soprattutto un’adolescente che si scontra con un padre troppo severo, è cocciuta, impulsiva e vuole scegliere da sola il proprio destino. La fiaba classica di Hans Christian Andersen viene quindi riletta come metafora della crescita: la sirenetta sogna di andare sulla terraferma ben prima di innamorarsi del principe Eric, è infatti affascinata dal mondo degli umani come forma di ribellione nei confronti del padre che ha vietato il contatto tra uomini e creature del mare. Si tratta senza dubbio di un personaggio con nuovi strati di complessità rispetto alle eroine precedenti, con una personalità più articolata a livello di scrittura e un’espressività tutta nuova dovuta a una generazione di animatori giovani con approcci innovativi (ma di questo parleremo tra poco).
Nuove tecnologie
La Sirenetta conclude definitivamente quella che gli appassionati Disney chiamano “l’epoca Xerox”. Si trattava di una tecnica, prodotta dall’omonima azienda e portata agli studi Disney dall’animatore Ub Iwerks, che permetteva di stampare direttamente sulla cel (il rodovetro) i disegni degli animatori. L’innovazione era stata sfruttata per la prima volta con La Carica dei 101, e non a caso: avere la possibilità di fotocopiare e riutilizzare i disegni, senza doverli realizzare e inchiostrare da zero ogni volta, era particolarmente utile nell’impresa di disegnare 99 cuccioli di dalmata! In seguito la tecnica venne mantenuta per i decenni successivi, permettendo di abbattere gli altissimi costi di produzione. Xerox è proprio il motivo del look particolarmente “matitoso” dei film degli anni ’60 e ’70, nonché delle numerose sequenze riciclate tra i classici di questo periodo.
Tutto questo non è presente ne La Sirenetta, che inaugura così una nuova era: quella della tecnologia CAPS, che permetteva di svolgere i processi di colorazione e inchiostrazione direttamente in digitale. Per la verità, il primo classico a farne un uso esteso sarà poi Bianca e Bernie nella Terra dei Canguri, ma già qui iniziamo a vederne i primi effetti, segnando un vistoso stacco con i film degli anni precedenti.
L’animazione
La natura di film di passaggio tra due epoche de La Sirenetta emerge indubbiamente anche dal punto di vista dell’animazione. Questo classico Disney non è privo di scivoloni e ingenuità dovute alle nuove tecniche con cui si doveva prendere la mano; oltre alla colorazione, uno dei problemi principali che si possono osservare è sicuramente la difficoltà nel tenere i personaggi umani “a modello” (la protagonista Ariel cambia spesso viso e fattezze da una sequenza all’altra). Questioni che verranno però risolte facilmente nei classici seguenti (già da Aladdin non sembrano più esserci problemi sotto questo versante).
D’altra parte è innegabile che il film si sia imposto come nuovo standard creando di fatto una nuova scuola. Il lavoro sulla principessa da parte del supervisore Glen Keane e del suo team (tra cui ricordiamo anche gli animatori Mark Henn e James Baxter e il character designer Dan Haskett) è qualcosa che non avevamo mai visto prima in Disney. Keane mescola i tratti riconoscibili della classica eroina Disney con l’espressività esagerata delle ragazze manga giapponesi, regalando ad Ariel una figura esile, due occhi molto grandi ed espressivi e soprattutto smorfie, faccette, caricature che Biancaneve, Cenerentola e Aurora non potevano ancora permettersi. L’effetto è quello di svecchiare l’animazione, ma anche di rendere il personaggio molto più coinvolgente per il pubblico.
Un kolossal di Broadway in salsa Disney
Tanti grandissimi artisti contribuirono al fenomeno La Sirenetta, ma probabilmente nessuno fu incisivo come Howard Ashman. Giunto in Disney direttamente dal mondo di Broadway, il paroliere fece coppia con il compositore Alan Menken per aprire le danze a una nuova era dell’animazione, quella del kolossal musicale. Un ritorno alle origini in cui la musica non è più soltanto accompagnamento, ma diventa indissolubile dall’immagine. È anche l’occasione per stabilire dei punti fermi che sono poi quelli del mondo del teatro: il prologo con la presentazione dello status quo e della vicenda, la “I want song” in cui l’eroe canta i suoi sogni e i suoi desideri, la canzone in cui l’antagonista svela i suoi piani malefici e altre ancora, che saranno riadattate e riprese in vari modi dai classici seguenti.
Ma non solo: Howard Ashman contribuì in maniera decisiva anche alla scrittura e alla caratterizzazione di alcuni personaggi, regalando al film delle soluzioni a dir poco geniali. Una su tutte, la decisione di rendere Sebastian non un rigido maggiordomo, ma un impacciato granchio giamaicano che di mestiere fa il compositore di corte. Non solo la scelta contribuisce a stemperare la serietà del film con una spalla comica ben riuscita, ma rende centrale il ruolo della musica nella vita di Ariel e dunque nella narrazione. Sebastian è in un certo senso un alter ego di Ashman stesso: è il compositore a condurre le redini della storia, è la musica a trainare nuovamente l’animazione Disney.