Studio di animazione attivo fin dagli anni ’90, oggi facente parte del gruppo Comcast/Universal Pictures. Tra i suoi franchise più di successo ci sono Shrek, Madagascar, Kung Fu Panda, Dragon Trainer, I Croods, Trolls.
Nel cinema d’animazione mainstream, sono pochi gli autori con la “A” maiuscola. Rispetto al live action, in cui i filmmaker hanno la possibilità di distinguersi per poetica, stile e storytelling (persino quando si tratta di blockbuster, basti pensare a nomi come Michael Bay o Zack Snyder), l’animazione tende ad essere un lavoro più corale, un gioco di squadra. Il risultato è che spesso e volentieri il regista figura come una sorta di prestanome: o è affiancato da un team di collaboratori e co-registi, oppure deve sottostare alla visione di chi è sopra di lui. Il suo compito, per nulla facile, è insomma quello di trovare il giusto equilibrio tra la propria visione artistica e le necessità commerciali imposte da creativi e dirigenti, a cui spetta comunque l’ultima parola.
Soltanto una manciata di nomi sfuggono a questa regola non scritta, e tra essi c’è sicuramente Chris Sanders, autore per la verità poco prolifico (ha diretto solo quattro titoli, e anche abbastanza diluiti nel tempo), ma in grado di generare nella sua nicchia un hype paragonabile a quello dell’ultimo kolossal di Christopher Nolan. È un caso interessante, quello di Sanders. A ben guardare, non è un regista particolarmente originale: la metà dei suoi film sono adattamenti, e non è certo un Pete Docter in grado di sfornare in successione idee brillanti come Monsters & Co., Up e Inside Out. Non è autoreferenziale e metafisico come Hayao Miyazaki, non ha una tecnica di riferimento come Guillermo del Toro o Henry Selick, né la sofisticatezza di Brad Bird o la playfulness di Genndy Tartakovsky. C’è però un peculiare appeal universale nelle sue storie, che parlano di emarginati, di famiglie strambe e sgangherate, di amicizia e amore in un modo così minimale e genuino da toccare corde che quasi non sapevamo di avere. È successo con Lilo & Stitch, e ancora con Dragon Trainer e I Croods, e si ripete oggi con quello che potrebbe davvero distinguersi come il suo miglior lavoro, Il robot selvaggio.
Ancora un adattamento, questa volta di un romanzo di Peter Brown, The Wild Robot ha un soggetto semplicissimo: una robot programmata per soddisfare i bisogni dell’uomo si ritrova su un’isola popolata soltanto da animali. Qui, alla ricerca di un compito da svolgere, finisce per adottare un pulcino di oca selvatica, che la metterà di fronte a un’avventura impossibile: quella di fare il genitore. Una storia in fondo già vista, che forse in mano a qualcun altro si sarebbe trasformata in una commedia piena di cliché e anche un po’ stucchevole, e che invece Sanders affronta con estrema delicatezza e con un grande rispetto per i suoi personaggi, sebbene siano quasi tutti quadrupedi con pelliccia, coda e zanne. Dall’alto della sua esperienza, l’autore misura attentamente tutti gli elementi a disposizione: l’umorismo e il dramma, la domanda esistenziale e la gag slapstick, il montaggio musicale dal sapore disneyano e la scena d’azione con il movimento di camera alla Avengers. Soprattutto, sceglie di accompagnare il racconto a una tecnica pittorica sbalorditiva, che alza l’asticella del lavoro già compiuto in Troppo Cattivi e Il Gatto con gli Stivali 2, con i quali DreamWorks si era inserita nel nuovo trend artistico di cui è stato pioniere Into the Spider-Verse. Perché, forse, il più grande merito di Il robot selvaggio è quello di essere un film (anche) contemplativo, in cui persiste una ricerca della composizione della bella immagine, anche quando essa non serva nell’immediato all’avanzamento della narrazione stessa. E questo, nell’animazione mainstream, è di certo una rarità.
Dal punto di vista contenutistico, il film omaggia e impara dai suoi predecessori (Il gigante di ferro, Wall-E), ma esplora l’idea di “umanità” (intesa come calore, solidarietà, cura) nella sua concezione più rozza e primitiva: se il Gigante o il robottino Pixar somigliavano agli umani poiché in grado di provare sentimenti di amicizia o amore, Roz è “umana” proprio nel suo rifiuto dell’umanità, nel suo correre a quattro zampe e nell’agire d’istinto, fino all’ibridazione con la foresta stessa, al punto da rompersi, sporcarsi di fango, ammaccarsi e sostituire parti del suo corpo con elementi naturali. In questo senso, la protagonista diventa quindi elemento di congiunzione tra “noi” e “loro”: nel processo di scoperta delle sue radici più ferine, Roz sancisce che la gentilezza – e non la violenza – è la vera chiave della sopravvivenza biologica.
Il finale è dolceamaro, e non soltanto per ciò che accade sullo schermo. Dei centinaia di nomi che scorrono silenziosamente nei titoli di coda, infatti, ormai in DreamWorks ne sono rimasti ben pochi. Lo studio è andato incontro a un’importante riduzione di personale per inseguire un modello di business che dal 2025 ridurrà il lavoro in house, per appoggiarsi sempre di più al contribuito di studi esterni. Come già accaduto con Inside Out 2, quegli artisti non raccoglieranno i meriti, né artistici né economici, del successo che Il robot selvaggio sicuramente avrà al botteghino e durante la stagione dei premi. L’ennesima testimonianza del paradosso dei tempi correnti, in cui l’animazione è l’unica a portare milioni di persone in sala, ma gli animatori sono quasi tutti senza lavoro.