Il miglior modo per approcciarsi alla visione di Fate: The Winx Saga è quello di mettere da parte il cartoon originale e accettare che questo non sia un prodotto nostalgico. In un’epoca di remake copia-incolla verrebbe da dire: finalmente. In effetti, almeno sulla carta, questa rilettura in chiave young adult realizzata da Netflix ha molto senso, soprattutto se consideriamo che l’ottava stagione di Winx Club è andata ad abbassare ulteriormente il target, rivolgendosi a bambini di età inferiore a quelli che guardavano la prima stagione 17 anni fa (presumibilmente anche la nona, in arrivo prossimamente, seguirà la stessa scia). Dunque, una mossa mirata da parte di Rainbow: ora esiste una versione di Winx per ogni età, e il franchise può arrivare ai piccoli come al pubblico pre-teen e teen.
A una prima occhiata, il lavoro di adattamento di Brian Young e del suo team si può dire riuscito. Del resto il materiale di partenza si prestava particolarmente: molti ricordano le Winx soltanto per le ali scintillanti e i vestitini alla moda, ma la prima stagione parlava di fatto dell’ultima superstite a uno sterminio di massa, a cui viene affidato un potere pericoloso e troppo grande per lei, ambìto da una forza malvagia che vuole dominare la Dimensione Magica. Insomma, non è necessario lavorare troppo di fantasia per trasformare questo canovaccio in un’opera per giovani adulti.
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Tutto ciò che è di contorno, dunque, si può dire convincente. Mancano (almeno per ora) le streghe, si cerca di abbozzare maggiormente una struttura politica concreta per l’Oltremondo, Fate e Specialisti si mescolano e diventano una sorta di potenza militare al servizio di Solaria; infine, la nuova minaccia è rappresentata dai “Bruciati”, di cui sappiamo soltanto che sono sulle tracce del potere di Bloom. Nei sei episodi per la verità non c’è molto tempo di approfondire il funzionamento o la storia del mondo magico, si corre molto per raccontare questa storia Bloom-centrica, e probabilmente dovremo aspettare le successive stagioni per saperne di più. Tuttavia l’ossatura sembra esserci, ed è evidente lo sforzo di acquisire degli elementi del cartoon classico per volgerli in chiave più politica, più adulta.
Lo stesso purtroppo non si può dire della caratterizzazione, una pecca che lascia Fate: The Winx Saga riuscita solamente a metà. L’impressione è che gli autori siano talmente impegnati a rendere i protagonisti cool ed edgy da dimenticarsi, paradossalmente, di renderli piacevoli. Con la parziale eccezione di Terra e Musa, che mostrano talvolta un po’ più di umanità, per la maggior parte del tempo quasi tutti i personaggi risultano piuttosto insopportabili, ammantati di un’aura talmente arrogante e sicura di sé da causare quasi una sensazione di rifiuto nello spettatore.
È davvero difficile entrare in empatia con queste Winx, e il problema è ancora più evidente se prendiamo in considerazione Bloom. In teoria, la fata che proviene dal Primo Mondo dovrebbe essere la nostra chiave di lettura per scoprire Alfea e l’universo magico con stupore e meraviglia; invece, il suo intero arco in questa stagione è guidato soltanto da rabbia, impazienza ed egoismo. Se da una parte questo è giustificato dal suo legittimo desiderio di conoscere il proprio passato, dall’altra è difficile prendere le parti di un’eroina talmente testarda da mettere in pericolo tutti coloro che tengono a lei. Addirittura, Bloom non subisce alcuna conseguenza per i suoi comportamenti incoscienti, ma viene premiata con il risveglio dei suoi poteri e con l’appoggio totale delle altre Winx, nonostante le sue azioni abbiano messo a repentaglio la sicurezza e il futuro della scuola di Alfea.
Bloom, Stella, Flora, Musa e Tecna erano le amiche che tutti avremmo voluto avere; al contrario, in questo gruppo non si ritrovano lo stesso calore e lo stesso senso di accoglienza: abbiamo forse vissuto un’avventura piacevole, ma finita la serie non ci resta il desiderio di diventare parte del Winx Club. In generale, non basta accennare a droga, rapporti sessuali e alcool per far sì che una storia diventi “per ragazzi”, occorrerebbe prima di tutto saper scrivere ragazzi autentici piuttosto che macchiette stereotipate.