Gli orsi hanno paura dei topi, e i topi hanno paura degli orsi. È così per tutti; tutti tranne Ernest e Celestine.
A dieci anni di distanza dal debutto al cinema che valse loro la nomination all’Oscar (evento piuttosto inusuale per un film d’animazione europeo), i personaggi nati dalla fantasia della disegnatrice belga Gabrielle Vincent sono tornati con Ernest e Celestine – L’avventura delle 7 note (titolo originale: Le voyage en Charabie), arrivato nel periodo delle feste anche nelle sale italiane.
Dopo tanti anni, quel piccolo film del 2012 continua a essere una delle opere meglio riuscite della scuola di animazione francese contemporanea, una storia che ha il raro pregio di dire tanto con molto poco. E per una volta non è colpa della scarsità di mezzi (il budget di Ernest e Celestine fu in realtà piuttosto consistente per un film europeo): il minimalismo qui è una scelta poetica, che si concretizza nella delicatezza della sceneggiatura di Daniel Pennac, nei bellissimi acquerelli che richiamano le illustrazioni dei libri e nella trama tutto sommato esigua, in cui manca la grande avventura, e il focus è tutto sui personaggi e sulla nascita del loro legame di amicizia.
Quella di Ernest e di Celestine è la storia di due anime gemelle che vengono da mondi diversi: dovrebbero avere paura l’uno dell’altra (lui è un orso, lei una topina) e invece trovano un terreno comune nella passione per l’arte (lui è un musicista, lei una pittrice). Il film culmina in uno splendido montaggio alternato in cui l’elemento più originale è la rinuncia dei protagonisti a rovesciare lo status quo. Di fatto non viene mai messa in discussione l’assurda legge che separa gli orsi dai topi: Ernest e Celestine non desiderano cambiare il mondo, desiderano “vivere insieme e non lasciarsi mai più”, ritagliarsi uno spazio che sia tutto loro in una società che non li ha mai accettati.
Curioso quindi osservare come anche il seguito raggiunga il climax nella sala di un tribunale, alla presenza di un giudice, ma questa volta con premesse completamente opposte. I due protagonisti si ritrovano infatti nella terra natale di Ernest, la Charabie, dove saranno chiamati a sovvertire un regime autoritario in cui sono state messe al bando la musica, le feste e l’allegria. Questa volta, al contrario del primo capitolo, l’autorità viene messa in discussione al termine di una vera e propria mini avventura con misteri, inseguimenti e una morale chiara e a portata di bambino. Se Celestine rimane più sullo sfondo, il sequel è il pretesto per conoscere il passato dell’orso Ernest, appena accennato nel primo film, e scoprire di più sulla sua famiglia e sul suo desiderio di diventare musicista.
La vicenda è piacevole e, seppur in maniera convenzionale e senza particolari guizzi (né di scrittura, né registici, né estetici, bisogna dirlo), sviluppa delle tematiche vicine all’attualità e sicuramente adatte a una riflessione in famiglia. Si parla infatti di scegliere la propria strada, seguire la propria vocazione, di ribellione verso le ingiustizie, in qualche modo anche di rivoluzione. Il cuore della storia resta ovviamente il rapporto tra Ernest e la topolina Celestine, qui nel ruolo di amica/sorella pronta a sostenere Ernest nel suo percorso di emancipazione dalla famiglia.
Molto è cambiato però rispetto al primo film, e non si può fare a meno di notarlo. Mancano le figure chiave che erano state l’anima e il cuore di Ernest e Celestine: Daniel Pennac, ovviamente, ma anche e soprattutto artisti come Benjamin Renner e Seï Riondet, che ne avevano definito l’aspetto grafico. Ne fa le spese soprattutto Celestine, penalizzata più di Ernest dai nuovi disegni e da un’animazione leggermente più rigida e “scattosa” rispetto al primo capitolo (per ragioni di budget?). L’impressione è quella di una continuità con la serie animata del 2017, piuttosto che con il lungometraggio del 2012 (gli stessi registi provengono, non a caso, dalla serie); una scelta comunque sensata in quanto temporalmente si tratta dell’incarnazione di Ernest e Celestine più vicina ai bambini di oggi. Ma è anche, senza dubbio, un film minore rispetto al precedente, e questo – purtroppo – dispiace.