C’è un problema che affligge gli appassionati Disney da quando lo studio ha deciso di abbandonare l’animazione tradizionale e produrre soltanto film in computer grafica. Ogni volta che viene annunciato un nuovo lungometraggio, i fan passano al setaccio le prime immagini delle nuove protagoniste femminili, per poi sentenziare quasi sempre che sono tutte identiche. Ma lo sono davvero?
Due anni fa abbiamo tentato di dare una risposta a questa domanda con questo breve approfondimento, che proponeva un’analisi di tipo storico. Animare un personaggio femminile è, infatti, una delle più grandi sfide di sempre, e non dovremmo stupirci troppo nel vedere gli artisti del CGI in difficoltà: erano in difficoltà anche Walt e soci, quando erano agli inizi, alle prese con Biancaneve e Cenerentola. E tuttavia, il punto di vista storico e tecnico è sicuramente solo uno dei motivi per cui le nuove principesse ci sembrano “tutte uguali”. Oggi più che mai, mille diversi fattori concorrono alla creazione di un personaggio, non ultimi il marketing e le direttive dei “piani alti”.
Ce ne parla più nel dettaglio Tansy Gardam di Fourthreefilm.com in una ricerca nata dall’osservazione del cortometraggio Pixar Lava (al cinema con Inside Out). L’autrice ha notato che, mentre Uku è a tutti gli effetti un vulcano con alcune caratteristiche antropomorfe, Lele, la sua controparte femminile, ha invece l’aspetto di una bella fanciulla umana, alta, slanciata, con le braccia e con i capelli lunghi. In sostanza il personaggio è stato privato di qualsiasi tipo di caratterizzazione, in favore di un design omologato e stereotipato. La Gardam ha dunque deciso di interrogare alcuni registi e artisti Disney sul tema della rappresentazione delle donne nell’animazione.
Il primo interpellato è stato Lino di Salvo, direttore dell’animazione in Frozen, che ha individuato un problema centrale: “Da un punto di vista storico, animare personaggi femminili è molto, molto difficile, perché hanno una vasta gamma di emozioni, ma allo stesso tempo devi fare in modo che siano carine.”
L’autrice si è rivolta in seguito a Brenda Chapman, la prima regista in assoluto per uno studio di animazione (per Il Principe d’Egitto, nel 1998) e la prima regista per un film Pixar, Brave.
“Dalla sua posizione di animatore, Lino ha assolutamente ragione. È incredibilmente difficile far sì che un personaggio femminile rimanga a modello (ovvero rimanga sempre identico a sé stesso in tutti i passaggi, ndr) e sia esteticamente piacevole con le poche direttive che vengono fornite. Lui non può decidere nulla da solo, sono i dirigenti dello studio a decidere – tramite il marketing e i direttori, per poi scendere giù ai produttori, i registi e i character designer, che infine si rivolgono agli animatori. I personaggi femminili sono sempre limitati, perché devono essere belli. Se avessimo più varietà nel concetto di bellezza, questo non sarebbe un problema.”
Come avevamo accennato poco fa, attualmente è il marketing ad avere l’ultima parola sull’aspetto di un personaggio, mentre l’animatore (che fino agli inizi degli anni 2000 si occupava completamente dello sviluppo del character, dai bozzetti al risultato finale) è solo l’ultimo ingranaggio di un grande sistema. Siamo in un momento storico in cui le major preferiscono andare sul sicuro: piuttosto che guardare avanti e proporre qualcosa di originale e creativo, gli studi decideranno quasi sempre di basarsi sui propri successi precedenti e di continuare a utilizzare formule già collaudate, almeno finché la risposta del pubblico sarà positiva.
C’è anche un altro fattore da considerare, ed è il merchandise. Solo una minuscola parte dei guadagni di uno studio proviene dai risultati al box office raggiunti dai film. Gran parte del profitto si basa oggi sulla vendita di prodotti e gadget correlati. L’esempio classico a cui si può pensare sono i film di Cars, solitamente poco apprezzati dalla critica, ma in grado di fruttare ogni anno miliardi solo in merchandise (secondo la Gardam il risultato delle vendite delle sole macchinine di Cars supera addirittura tutti gli incassi dei film Pixar combinati insieme). In conclusione, nel 2015 il vero prodotto non è il film in sé, bensì l’appeal dei personaggi, l’universo in cui essi si muovono e soprattutto la loro capacità di tradursi in bambole e pupazzi.
E come si rende un personaggio femminile “appealing”? La regola numero uno, più o meno da quando l’animazione è nata (e con poche eccezioni come Aurora, Megara, Pocahontas, Kida, Colette) è “circles are friendly”. Testa circolare (anche quando il personaggio non è umano, come Gioia di Inside Out), occhi grandi, fisico a clessidra: la linea morbida è rassicurante e rende i personaggi piacevoli allo sguardo. L’autrice nota anche che le poche donne che non rispondono a questi canoni, ad esempio Edna Mode in Gli Incredibili, non sono “appealing”, ma personaggi comici, a cui, a quanto pare, non è richiesto di essere femminili. Un ulteriore intervento di Brenda Chapman ci spiega come la regista abbia dovuto piegarsi al compromesso anche nella produzione di un suo stesso film, Brave (difatti la Chapman lasciò la regia e la Pixar a metà dell’opera). L’artista voleva dare alla regina Elinor, madre della protagonista Merida, delle rughe come segno del tempo che passa tra il prologo e l’adolescenza della figlia. Invece, le venne vietato.
In ultimo, però, la Gardam individua il vero problema che potrebbe essere alla base di tutto ciò, ovvero la scarsa presenza di animatrici nel mondo del cinema. Attualmente, il 60% degli studenti di animazione è composto da donne, ma quando si guarda ai lavoratori negli studi di produzione, la percentuale cala drasticamente al 20% (fonte dati: WIA). E nonostante le donne abbiano svolto sempre ruoli rilevanti nello sviluppo di lungometraggi animati (pensiamo ad esempio all’impronta data dall’arte di Mary Blair a tutto il cinema Disney degli anni ’40/’50), sono passati ben 60 anni da Biancaneve e i sette nani per poter avere una donna affiancata a un uomo alla regia. La prima donna a dirigere da sola un film d’animazione, Jennifer Yuh Nelson, è arrivata ancora più tardi: solo nel 2011. E infine, non è un segreto che due dei personaggi femminili più amati degli ultimi anni, Anna e Elsa di Frozen, siano stati concepiti e scritti da una donna, Jennifer Lee. Il problema sembra ancora più radicato, dunque, e forse sarebbe opportuno tenere a mente tutti questi molteplici fattori, prima di parlare di “pigrizia degli animatori”.