Comincia come un film DreamWorks, Onward. C’è il protagonista impacciato e sfortunato alla ricerca del suo posto nel mondo, il fratello maggiore fracassone e un po’ svitato, la quest da portare a termine; ci sono, insomma, una serie di premesse abbastanza convenzionali che non ci aspetteremmo da chi negli ultimi anni ci ha regalato film come Inside Out e Coco. E soprattutto c’è un character design pigro, pigro come non lo si vedeva dai tempi di Il viaggio di Arlo, in cui non c’è ricerca visiva, non c’è caricatura, manca insomma l’inventiva che ha sempre caratterizzato la Pixar. Non bastano due orecchie a punta per fare un elfo: il design delle creature di Onward impallidisce già di fronte a quello di Soul (un paragone ingiusto, è vero, del resto parliamo di quel genio della stilizzazione di Pete Docter).
Attenzione: in questa recensione sono presenti SPOILER sul finale.
Ad essere Pixar fin nel midollo è invece il setting: un universo fantasy in cui si è persa ogni traccia della magia, ridotta a mera chimera dei tempi passati. Con l’invenzione della tecnologia, non solo gli incantesimi non servono più, ma le creature fantastiche si sono impigrite e imborghesite; sono diventate, insomma, come gli esseri umani. Questo mondo, per la verità, nel corso della storia viene poco approfondito, ma in compenso offre splendidi paesaggi fantasy, e con essi la domanda sul perché si facciano così pochi film d’animazione “di genere”.
Dicevamo: comincia come un film DreamWorks, Onward, ma un film DreamWorks non è, poiché dalla vicenda emergono gradualmente quella sensibilità tipicamente pixariana e l’impressione che la scrittura sia in realtà più intelligente di quanto sembri in apparenza. Lo scetticismo iniziale dello spettatore è lo stesso di Ian nei confronti dell’impresa da compiere: crescono parallelamente la sua e la nostra fiducia verso questa sgangherata avventura, e ugualmente rivelatore è il momento in cui il film scopre finalmente le sue carte svelando la reale tematica nascosta. Un finale commovente, ma soprattutto genuino, di una semplicità che è schiettezza dei sentimenti, mai banalità.
È interessante infine osservare quanto Onward sia in linea col lavoro precedente del regista Dan Scanlon, Monsters University. Pur essendo due film diversissimi, entrambi presentano un protagonista che infine fallisce, o meglio sceglie di rinunciare al proprio sogno affinché ne benefici qualcun altro, e nel farlo trova così la sua vera ragion d’essere. Né Mike né Ian arrivano realmente ad avvicinarsi al loro obiettivo, ma non importa: non era quello di cui avevano davvero bisogno. Si tratta probabilmente di una tematica cara al cinema di Scanlon e, dopo averla introdotta attraverso personaggi altrui, fa piacere che sia riuscito a sviscerarla attraverso un racconto così autobiografico.
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