Non è una vera recensione… sono più considerazioni (scontate?) sovvenute all’uscita della sala cinematografica. A un certo punto sono segnalati due paragrafi interi con potenziali SPOILER che invito calorosamente a saltare e recuperare una volta visto il lungometraggio – Kerm
Inside Out… un titolo che dopo esser passato al vaglio dei nostri traduttori è rimasto così, nella sua purezza originale, senza neanche essere affiancato da un sottotitolo come capitato a Frozen o Tomorrowland. Perché? È un accostamento di termini opposti così essenziale, eppure tanto denso di significato da essere pressoché intraducibile?
Mai come stavolta comprendere questo binomio “contraddittorio” ci dà la possibilità di avventurarci nel lungometraggio e di tirarne fuori alcuni nodi concettuali fondamentali. È stato più volte sottolineato in questi mesi di attesa quanto potesse essere geniale l’idea del regista Pete Docter di imbarcarsi in un appassionante viaggio nei meandri della mente umana. Ma il tratto che forse in molti avevamo ignorato era la difficoltà di gestire una storia con due palcoscenici completamente diversi ma strettamente connessi e influenti l’uno sull’altro. Da una parte il road movie vero e proprio attraverso località governate da una rapsodia di colori e personaggi, divertente ed epico allo stesso tempo; dall’altra una comunissima storia di formazione ambientata nella vita di tutti i giorni e segnata da dinamiche che ben conosciamo.
L’unico modo perché potessimo capire il saldissimo legame che sussiste tra le due vicende e le catene di cause ed effetti che lo tessono, era spostare di frequente l’attenzione da un ambiente all’altro, anche in maniera brusca se la concitazione del momento lo richiedesse.
Questo continuo entrare ed uscire, dentro-fuori (Inside-Out appunto!), poteva portare al disastro, stancando lo spettatore, o peggio disperdendolo in quella zona di soglia tra l’interno e l’esterno, privato della possibilità di riuscire a seguire entrambi i filoni narrativi. O ancora, poteva portarlo ad affezionarsi soltanto ad una delle due storie e a considerare i vari focus sull’altra come “inserti fastidiosi”. Tutto questo non accade. Tutto questo è soltanto frutto della fervida immaginazione di un preoccupato spettatore che ha riposto la sua fiducia in questo lungometraggio da ormai moltissimo tempo e che teme di restare deluso, anche in minima parte. Le continue ripercussioni che a turno ognuno dei due mondi ha sull’altro, rendono necessario aspettare gli sviluppi su entrambi i fronti (è chiaro che è la dimensione interiore a condizionare prevalentemente quella esterna) e una risoluzione biunivoca degli intrecci.
Non saprei quanto in tutto questo discorso si possa parlare di equilibrio (che di fatto esiste e permea l’intero film consentendo agli spettatori di essere sempre a proprio agio) visto che, come abbiamo rilevato già solo analizzando il titolo, sono la giustapposizione e la convivenza di opposti a fare la parte del leone. Del resto a ognuno di noi risulta difficile parlare di controllo, misura e bilanciamento in materia di emozioni.
Cinque personaggi straordinari (ma d’altronde la caratterizzazione è da sempre il punto di forza di Docter!) nei quali è impossibile non identificarsi: del resto sono parte di tutti noi! Sarebbe stato facile costruire delle emozioni monotone, che vivessero sempre e solo la propria natura; così come sarebbe stato altrettanto semplice costruire 5 personaggi a tutto tondo che provassero in modo equilibrato l’intera gamma di sentimenti che possiamo immaginare. Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto sono invece nella dimensione del “prevalentemente”, altra difficilissima condizione da mantenere sempre coerente e soprattutto complicata da gestire a causa delle contraddizioni interne che porta con sé. La protagonista umana, Riley, è invece prevedibilmente studiata per provare tutti gli stati d’animo messi in scena, e per reagire in modo da rendere riconoscibile l’azione di ognuno di essi. Determinate combinazioni di pulsanti, leve e quant’altro generano infatti differenti espressioni del volto, dalle quali risulterebbe facile capire chi sta operando nella mente della ragazza anche senza avervi guardato “inside” pochi attimi prima.
Ma se è vero che Riley è mossa dai 5 impulsi presenti nel Centro di Comando… chi o cosa muove questi ultimi?
ATTENZIONE, SI SCONSIGLIA LA LETTURA DEI DUE PARAGRAFI SEGUENTI SEGNATI IN CORSIVO A TUTTI COLORO CHE NON HANNO ANCORA VISTO IL FILM – SPOILER ALERT
Gioia è mossa sicuramente da un incredibile affetto genitoriale nei confronti della sua bambina. Il feeling che ha instaurato con Riley è qualcosa di commovente, anche solo pensando al fatto che conosce i ricordi della ragazza a menadito, dai più importanti fino ai più insignificanti. Ed è proprio lei nelle fasi iniziali a spiegarci quali sono gli obiettivi dei suoi colleghi, meno che di Tristezza. Ma cosa li muove? Una programmazione? Un sistema razionale che li governa e trasmette loro cosa fare e come agire? Questo in parte è ciò che Gioia, leader della combriccola, vorrebbe (come in effetti mostra il minuzioso piano progettato per affrontare il primo giorno di scuola)… cos’è che però non funziona? Tristezza. Lei è l’anello impazzito della catena, quella che in effetti prendendo l’iniziativa sembra combinare un disastro. Possiamo ridurre il personaggio a un’impiegata di questo strambo ufficio, stanca di essere lasciata da parte ed esasperata dal rimanere confinata in un cerchio? Riflettendo più attentamente possiamo facilmente capire che non è così, altrimenti l’avremmo vista accennare un minimo di rabbia e frustrazione (l’abbiamo detto prima che ogni emozione esprime prevalentemente e non esclusivamente la sua natura… Era possibile vederla arrabbiarsi quindi). Questo non succede: lei vuole toccare i ricordi e questa volontà sembra dettata anche da una certa ingenuità. Di fatto non riesce neanche a spiegare per bene cosa stia facendo e soprattutto il perché lo faccia. E non possiamo neanche immaginare che abbia ricevuto ordini da qualcuno “più in alto” o che abbia letto qualcosa su uno dei tanti manuali, altrimenti avrebbe almeno provato a giustificarsi in modo più convincente. La risposta a questo rebus è molto più scontata di quello che si può credere: siamo alle radici del nostro essere, in una dimensione quasi pre-umana. Non è solo il nostro cervello con i suoi schermi organizzativi e razionali a guidarci, ma siamo anche e soprattutto istinto. Ed è proprio dalla parte di quest’ultimo che sono schierate le nostre emozioni in questa schizofrenia oppositiva che contraddistingue la nostra natura. Tristezza sente l’esigenza irrefrenabile di toccare quei ricordi e alla fine è la cosa giusta da fare. Lei sa cosa è necessario, nessuno glielo ha detto, ha una spinta irrefrenabile ad agire in quel modo.
CONTINUA IL CORSIVO – SPOILER ALERT
Il problema non è lei, ma è Gioia che non comprende, che cieca d’affetto continua per la sua strada secondo ciò che lei crede sia meglio. Non che Gioia non abbia istinto, sia chiaro, semplicemente lo reprime. Se è vero che Disgusto gioisce, Paura si arrabbia e via dicendo… Gioia obbliga se stessa a non lasciarsi andare ad altri stati d’animo. Non comprende il ruolo di Tristezza perché non l’ha mai provata. Risulta chiarissimo in alcune fasi iniziali come il suo entusiasmo appaia forzato (ma volutamente, non è un errore di caratterizzazione). L’antagonismo tra la festosa emozione gialla e la sua controparte blu sta proprio nell’essere giustapposte senza che vi sia una comprensione biunivoca. Del resto fin dal primo momento Gioia ha visto Tristezza come una minaccia da contrastare, forse anche a causa di un leggerissimo tratto di egocentrismo: Tristezza è soltanto colei che le ha rubato la scena dopo appena 33 secondi dalla nascita di Riley. L’affetto genitoriale di cui sopra è in qualche modo esasperato e fuorviante, qualcosa che conosciamo anche nella vita quotidiana e che in questo film ci è mostrato nel mondo interiore. Gioia vorrebbe far crescere la sua piccola in una campana di vetro, lontana dai pericoli (ecco perché tollera Paura, Rabbia e Disgusto) ed è molto tesa e preoccupata all’idea di non essere all’altezza. Il mondo che ha interamente costruito su ricordi-base gioiosi è sicuro, e vuole restarvi ancorata senza capire che il cambiamento è necessario: bisogna lasciarsi qualcosa alle spalle per poter andare avanti, come i ricordi sbiaditi rimossi dagli impiegati della memoria a lungo termine, o come Bing Bong che ormai non ha più ragione di esistere. Del resto non siamo mai uguali a noi stessi, ma ci modifichiamo continuamente a seconda degli eventi, delle nostre azioni, delle conseguenze delle azioni degli altri. Siamo personalità in continuo sviluppo e crescita, organismi sempre completi ma mai formati definitivamente.
Quando Gioia scoppia in un emozionante pianto capisce il senso di tutto, e come l’antagonismo tra lei e Tristezza non sia altro che l’avvicendarsi di forze opposte appartenenti alla stessa matrice: non può esserci una senza l’altra; Riley è stata felice poiché in precedenza era stata triste, e viceversa. Ed ecco quindi la necessità di farsi contaminare dall’altro per poter lavorare in squadra (emblematica la nascita dei nuovi ricordi-base, ora misti e non più monocromatici). I membri del team devono sapersi capire, sapersi ascoltare, e grazie a questa empatia provare tutti insieme a fare ciò che è meglio. Il lieto fine sta quindi nel dare un posto alla Tristezza e sentirla dentro, provarla, anche se ci chiamiamo Gioia e ne siamo l’opposto per definizione. Lieto fine e provare tristezza, ennesime forze in contrasto! Non trovate che sia un epilogo che rasenta il paradosso, ma vero come pochi nella storia della cinematografia?
Fuori dal Centro di Comando, a parte Imagilandia, gli altri impiegati della mente arrivano prima a capire ciò che è meglio poiché si muovono secondo schemi più razionali improntati maggiormente all’utile: ecco quindi il lato organizzativo proprio della nostra parte più logica e meno istintiva che non poteva essere lasciata completamente fuori dal discorso, malgrado fosse tutto incentrato maggiormente sulle emozioni.
Fuori dalle implicazioni più interne alla storia, al messaggio e a quella che potremmo definire la “filosofia del film”, un campione in originalità ed eccentricità come Docter non poteva non esibirsi nella creazione di un mondo colorato e psichedelico, dove la geometria che sagoma i personaggi arriva alle estreme conseguenze addirittura destrutturando i corpi tridimensionali nella quadridimensionalità cubista e in un elaborato e poi sempre più elementare bidimensionalismo di cui tanto sentiamo la mancanza nel mondo dell’animazione.
Una comicità misurata, ironica, intelligente, senza troppi tormentoni, cosa invece molto in voga di questi tempi con quelle che un acuto giornalista ha soprannominato “hashGag“. Strutturata forse su alcuni cliché cui però è impossibile non dare assenso, uno su tutti la comparsa improvvisa e frequente di un motivetto orecchiabile che ci ronza nella testa… come accadrà a tutti voi con la colonna sonora del cortometraggio Lava che vedrete prima di iniziare questo strepitoso viaggio nella mente e in tutte le sue sfaccettature, in una dimensione di soglia tra opposizioni sapientemente giustapposte, tra il dentro e il fuori, tra il pianto e la risata, tra il lieto e l’amaro, tra le emozioni e la razionalità, tra l’istinto e la progettualità… tra Gioia e Tristezza, senza dimenticare l’esigente Paura, il simpaticissimo Rabbia e l’acuta Disgusto!