Raya e l’ultimo drago è una bellissima anomalia. Non scherzava la Disney quando con grandi proclami lo ha definito un film “diverso”: in effetti bisogna risalire piuttosto indietro per trovare un titolo che gli somigli. Per certi versi è un perfetto contraltare di Oceania: laddove il film di Musker e Clements era formulaico nella sua ottima riproposizione della struttura dei classici anni ’90, Raya si avvicina più per atmosfere e intenti a un classico dell’era sperimentale, segno forse che la Disney sotto Jennifer Lee sia già pronta a lasciarsi alle spalle il periodo Revival per cominciare una nuova epoca.
Viene subito da pensare ad Atlantis – L’impero perduto, perché ciò che Raya fa molto bene è coniugare lo storytelling disneyano al genere azione/avventura, in questo caso di stampo orientale. Anche confrontandolo con Big Hero 6, il lavoro precedente del regista Don Hall, che pure era di genere supereroistico/azione, è chiaro che ci troviamo su un livello di maturità ben superiore: le atmosfere sono cupe davvero, il pericolo è tangibile e sempre dietro l’angolo, le mazzate sono reali; insomma, è un film che, pur rimanendo saldamente nel suo target di riferimento, non si trattiene e non edulcora i suoi contenuti.
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Curiosa anche la realizzazione, che nello stadio finale è stata affidata quasi completamente ad outsider (e si vede): di fatto siamo davanti a un film girato come un live action, che sembra un live action, scritto, diretto e musicato da professionisti del mondo del live action, e purtuttavia inserito in maniera assolutamente omogenea nel canone dei classici. Forse il merito più grande di Raya e l’ultimo drago è di non far rimpiangere le canzoni, pur facendo parte del filone parallelo a quello della fiaba musicale. Zootropolis era un musical mancato, Big Hero 6 ne avrebbe beneficiato per mascherare qualche ingenuità di scrittura, Ralph Spaccatutto è corso ai ripari alla svelta nel secondo capitolo; qui invece la scrittura è talmente solida che non se ne sente mai la necessità. Non solo: i momenti che nel tipico classico Disney sarebbero stati colmati da una canzone, stavolta sono sapientemente affidati a brevi sequenze contemplative, in cui a parlare sono i movimenti, le espressioni e la splendida colonna sonora di James Newton Howard. È forse la prima volta in diversi anni che un film Disney è talmente sicuro di sé da rifiutarsi di essere over-explaining, e da lasciare quindi che il pubblico adempia al proprio compito.
Al centro di questa storia che parla di fiducia e di seconde possibilità c’è poi una triade di personaggi femminili tra cui spicca una protagonista decisamente diversa dalle principesse che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Raya aveva una personalità buffa e spensierata come quella di Rapunzel o Vaiana, ma l’ha perduta: a causa di un trauma infantile è diventata cinica, egoista, sospettosa nei confronti del prossimo. Non vuole neanche salvare il mondo, le è sufficiente chiudere i conti col suo passato: è la prima principessa Disney pessimista. A far rinascere la speranza sarà ovviamente il drago Sisu, che dopo aver tentato (goffamente, bisogna dirlo) di far da spalla comica diventerà per l’eroina una saggia mentore. Ma soprattutto sarà Namaari, la rivale che è anche l’ultimo legame rimasto con quel passato da cui Raya è tormentata.
Infine, occorre notare come per mettere in scena l’avventura epica di Raya e l’ultimo drago, i Walt Disney Animation Studios ricorrano al miglior iperrealismo che abbiano mai realizzato. Curatissime le ambientazioni, ma a spiccare sono sicuramente i sofisticati character design di Shiyoon Kim (per una volta non penalizzati dalla traslazione in CGI), i nuovi modelli 3D dei personaggi (non si può proprio dire che Raya o Namaari siano “cugine” di Rapunzel) e la character animation che non ha davvero eguali nel panorama americano. Di fronte a tutto questo ben di Dio, viene da chiedersi però se Disney non sia un po’ in ritardo: dopo lo spartiacque segnato da Spider-Man: Into the SpiderVerse, e ora che persino Pixar ha abbandonato il fotorealismo stretto grazie a film come Soul, Luca e Turning Red, una scelta del genere – pure considerata in tutta la sua gloria artistica – pare quasi un passo indietro. Ci sono un paio di sequenze che fanno sperare in qualche novità estetica in futuro, ma su questo non diciamo altro per non rovinare la sorpresa.
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