Il 2016 sta per terminare ed è stato un anno da record! Riviviamolo studio per studio mentre aspettiamo di gustarci tutte le novità che la Casa di Topolino ha serbato per il 2017!
These are Kerm’s 2016 favourites (and more…)!
Film d’animazione
Dopo due anni di pausa, ecco che Walt Disney Animation Studios e Pixar tornano a scontrarsi pacificamente al box office (uno “scontro” che se vogliamo vede soltanto un vincitore: una Company che raggiunge un grande record in termini di incassi). Sono due i nuovi Classici, diretti tra l’altro da due coppie di grandissimi artisti disneyani, la prima inedita, l’altra ben navigata: parliamo di Rich Moore e Byron Howard per Zootropolis e di John Musker e Ron Clements per Oceania.
I registi dei due film in CGI più belli degli ultimi anni uniscono le forze per una nuova storia originale, riprendendo un tratto caratteristico della tradizione: gli animali antropomorfi. Nasce così Zootopia, arrivato qui come Zootropolis, un film davvero bello, molto politico e concepito probabilmente anche in relazione agli eventi che stanno segnando la contemporaneità. Un messaggio forte di dialogo e condivisione con chi è diverso, anche se agli antipodi, e un invito a dare sempre il meglio di sé. Senza dubbio il miglior lungometraggio dell’annata. Visivamente memorabile la sequenza di apertura sulle note dell’unica canzone del film, Try Everything cantata da Shakira, durante la quale ci viene mostrata la fantastica città di Zootropolis, che speriamo di poter visitare ancora più a fondo in futuro (magari non coinvolgendo per forza i bellissimi personaggi già visti nella pellicola di quest’anno).
Dopo aver reso grande quel periodo denominato “Rinascimento Disney”, e aver inaugurato l’era “Disney Revival” con La Principessa e il Ranocchio, non poteva certo mancare una nuova opera targata Musker & Clements. Perfettamente inserito in quella “zona grigia” tra innovazione e tradizione, il duo fa il suo debutto nel mondo dell’animazione interamente a computer con Oceania. Ritroviamo in questo lungometraggio, destinato a totalizzare grandi cifre al box office: una trama lineare e scorrevole che ricorda molto, in materia di struttura, alcuni dei loro primi lavori come La Sirenetta e Aladdin; la forma del musical, già riportata in auge da Rapunzel – L’Intreccio della Torre (co-diretto da Nathan Greno e da quel Byron Howard del quale parlavamo poco fa) e poi dall’ormai famoso Frozen – Il Regno di Ghiaccio; la contaminazione di generi e culture, come sperimentata in parte in Hercules, dove tra l’altro i due avevano avuto già a che fare con la mitologia e le divinità. Dalla tradizione però torna anche a farci visita (e con piacere vediamo che la cosa inizia a diventare più frequente) l’animazione tradizionale, quella di primissima qualità firmata nientepopodimeno che da due leggende del disegno animato Disney come Eric Goldberg e Mark Henn. In queste scene avviene qualcosa di straordinario e che fino ad ora sembrava irrealizzabile, non da un punto di vista tecnico quanto di intenzioni: se negli anni 80-90 erano personaggi animati in 2D a muoversi su fondi e ambienti ricreati in computergrafica, in Oceania possiamo vedere esattamente l’opposto. Il risultato? Sequenze pazzesche che rendono giustizia alla cultura polinesiana e a noi sostenitori di una convivenza tra animazione tradizionale e CGI nel panorama cinematografico. Forse un prodotto meno maturo delle ultime pellicole del duo (soprattutto rispetto a Il Pianeta del Tesoro, che viene in qualche modo “citato” grazie al tema della navigazione), ma non per questo meno godibile. Menzione speciale alle canzoni (adattamento in italiano a parte), alcune dal sapore più esotico firmate da Opetaia Foa’ì, e altre ad opera del compositore hip-hop/R&B Lin-Manuel Miranda che introduce il genere rap in un film Disney dopo averlo portato a Broadway con Hamilton: An American Musical.
Gli studi di Luxo portano nelle sale il primo dei sequel che caratterizzeranno interamente i prossimi anni (fatta eccezione per Coco): Alla Ricerca di Dory. Un film ben riuscito che riprende molte tematiche già affrontate nel suo predecessore (prima fra tutte quella della disabilità, stavolta anche di natura neurologica e non soltanto fisica). La domanda che viene da porci è però: quanto ne sentivamo il bisogno? La risposta è “poco o per niente”. È una nuova storia che colma sì qualche dubbio lasciato in precedenza, ma su cui probabilmente gli spettatori non avevano esigenza di soffermarsi. Probabilmente approfondire il destino dei pesci dell’acquario da quel fatidico “E adesso?”, sarebbe stato più strettamente collegato alla pellicola originale da un lato, forse più scontato dall’altro. La scena del camion è quella su cui nutro le maggiori perplessità, non per i toni decisamente sopra le righe, ma perché sembra che il mondo sottomarino costruito da Andrew Stanton interferisca in modo troppo incisivo con il nostro.
Cortometraggi d’animazione
Anche qui è battaglia tra i due studi: la Pixar schiera il suo Piper, la Disney Testa e Cuore. Due corti adorabili e di grande valore artistico che rappresentano due modi altrettanto corretti per fare animazione. Piper, la storia di questo uccellino pronto a fare un grande passo nel suo processo di crescita, con tutte le difficoltà del caso. Muto, accompagnato da un elegante e deciso clavicembalo protagonista della traccia composta da Adrian Belew, è una delicata perla di emozioni. Seppur meno intenso di Parzialmente Nuvoloso o de La Luna, sa regalare molto più calore di alcuni lungometraggi d’animazione visti di recente. Un impressionante fotorealismo (da paura l’animazione della sabbia) anche nel design dei personaggi, che non compromette la possibilità di comunicare e agire in modo tipicamente cartoonesco. Davvero eccellente.
Ma se da una parte l’animazione riproduce in modo molto fedele la realtà, i WDAS ci propongono Testa e Cuore, un divertentissimo corto che trae la sua ispirazione dall’ormai noto cortometraggio del 1943 Reason and Emotion, come il meraviglioso film Pixar dell’anno scorso intitolato Inside Out. Tanti inserti in 2D, design stilizzato e irresistibile, divertente, emozionante, con una morale che nel mondo di oggi va tenuta sempre più presente, colonna sonora gradevolissima… insomma, la Disney che ci piace!
Film in live action
Il GGG è uscito da poco e non ho avuto ancora il piacere di vederlo. Da Alice Attraverso lo Specchio mi aspettavo sinceramente molto di più (salvo un Sacha Baron Cohen surreale, anche se comunque un tantino sottotono rispetto ai suoi standard) sia per il soggetto, sia per la regia di James Bobin che qualche anno fa aveva sfornato un film sui Muppet davvero stupendo. Il Libro della Giungla di Jon Favreau e Il Drago Invisibile di David Lowery si inseriscono anch’essi in questa sfilza di remake in live action programmati dalla Company per questi anni. L’uso quasi totale della CGI per quanto riguarda il remake del Classico del 1967 dovrebbe farci riflettere sul concetto stesso di “live action”, a maggior ragione considerando che lo stesso Favreau continuerà a prendere parte a progetti del genere, dirigendo il sequel della pellicola di quest’anno e il remake de Il Re Leone, dove ricordiamo che non c’è alcun personaggio umano che possa essere interpretato da attori in carne ed ossa. Malgrado tutto risulta un film godibile, abbastanza distante dal cartone animato soprattutto in fatto di atmosfere, ma con qualche richiamo forte come la presenza di “The Bare Necessities” e di “I Wanna be Like You” (cantata peraltro da Giancarlo Magalli, il nostro Filottete. Azzardo a dire che tanti di noi vorrebbero più personaggi doppiati da Magalli, sia per la simpatia, sia per il talento: il suo Re Luigi è fantastico). Con Il Drago Invisibile la Disney affronta in misura nettamente inferiore il confronto con il lungometraggio di riferimento, Elliot il Drago invisibile del 1977, pressoché sconosciuto alle nuove generazioni. Il film è carino, nulla di memorabile, ma piacevole. A mio parere però la Disney commette un unico errore: nella loro presentazione iniziale (ovvero un bimbo che cresce da solo in una giungla/foresta diventando amico di creature non umane), i due film appaiono troppo simili rendendo inevitabile un confronto e una sensazione di “già visto” che penalizzano la pellicola di Lowery. C’è però da sottolineare che Mowgli e Pete sono personaggi profondamente diversi, e non possiamo liquidare il secondo definendolo un “Mowgli ripulito” come alcuni commentatori hanno fatto. Anche i loro amici animati svolgono funzioni totalmente differenti (Bageera, Baloo e il branco dei lupi sono dei veri e propri mentori; Shere Khan, Kaa, e King Louie sono antagonisti a tutti gli effetti; Elliot è più un animaletto domestico) così come la presenza e il ruolo degli umani. Ma non sarebbe stato più appagante poter vedere anche qualcosa di totalmente originale sulla scia di Tomorrowland – Il Mondo di Domani?
Come già annunciato l’anno scorso, i Marvel Studios si sono stabilizzati su due uscite l’anno. Ma non contenti, Kevin Feige e company nel 2017 passeranno addirittura ad uno standard di 3 pellicole all’anno (nella fattispecie gli attesissimi Guardiani della Galassia Vol. 2, Thor: Ragnarok, e Spider Man: Homecoming co-prodotto con la Sony). Due titoloni quelli del 2016, Captain America: Civil War e Doctor Strange.
I Russo tornano a raccontare le avventure di Steve Rogers, ma in un quadro decisamente diverso rispetto a prima. La trama riprende esattamente da dove Avengers: Age of Ultron ci aveva lasciati, rendendo i due lungometraggi inscindibili. Esattamente come il film di Joss Whedon, Civil War mette in scena una grande quantità di personaggi, testando la capacità del team di sceneggiatori composto da Christopher Markus e Stephen McFeely e dei registi stessi di gestire la coralità in vista dell’attesissimo terzo film sugli Avengers che come sappiamo chiamerà in causa Thanos armato di Guanto dell’Infinito e vedrà Vendicatori e Guardiani della Galassia (e forse altri personaggi) unire le forze per sconfiggerlo (ricordiamo che la prima parte si chiamerà Avengers: Infinity War. La seconda non ha ancora un titolo e arriverà a distanza di un annetto). Si tratta comunque di un ottimo thriller politico, con bellissime sequenze d’azione e nel quale ogni personaggio riesce ad essere gestito al meglio, a prescindere dallo screentime. Invece, passando al film di Scott Derrickson, si attendeva da tanto un lungometraggio incentrato su Stephen Strange. L’attesa ha dato i suoi frutti: il film riesce a mettere a fuoco in modo eccellente il personaggio interpretato da Benedict Cumberbatch e, in qualche modo, pone le basi per un universo (anzi, un multiverso) Marvel diverso, che probabilmente vedremo dopo la grande battaglia contro il Titano Pazzo. Visual effects bellissimi e mai come in questo caso utilissimi alla narrazione. Unica pecca: Kaecilius. La Marvel deve ancora sfornare un antagonista davvero temibile e carismatico (a parte Loki).
In queste ultime settimane abbiamo potuto assistere anche all’ultima fatica targata LucasFilm: Rogue One – A Star Wars Story, il primo spin off della saga creata negli anni settanta da George Lucas. L’idea è più che buona, rappresenta un ottimo compromesso per continuare e usare un determinato marchio ma raccontare storie originali e non scontate (un po’ quello che auspicavo per Zootropolis all’inizio e che suggerirei di accarezzare anche per Toy Story) che coinvolgono altri personaggi e ambienti di quello stesso mondo. L’impianto narrativo è lineare e ci sono degli spunti molto interessanti (i ribelli devono comportarsi anche “male”, gli estremisti…) e la spiegazione del perché una stazione spaziale così all’avanguardia come la Morte Nera avesse un punto debole così “vistoso” e banale, è perfetta. Ma il modo di raccontare le vicende è abbastanza confuso, per non parlare dei protagonisti: Jyn è completamente fuori dalla storia, gli eventi le scivolano addosso, non si riesce a creare un legame con lei, idem Cassian; ben riuscito invece il comprimario Chirrut e non dispiace neanche la sua controparte Baze; Saw Guerrera avrebbe meritato più spazio, si vede davvero poco e non soddisfa. Un vero peccato poiché date quelle premesse e alla luce dell’ultimo atto del film, poteva essere il miglior film targato Star Wars mai realizzato.
Serie Tv
Super dominio Marvel in fatto di serie televisive: il 2016 ne ha viste uscire addirittura 4, più una miniserie web! Cominciamo in ordine di anzianità. Marvel’s Agents of S.H.I.E.L.D. conclude la sua terza stagione nella prima parte dell’anno in modo abbastanza convincente: ci si aspettava di più dai Secret Warriors invero, ma la minaccia rappresentata da Hive è molto interessante. Personaggio migliore assolutamente il Gideon Malick di Powers Boothe, che avevamo visto già interagire al cinema con Nick Fury in The Avengers. L’apertura della quarta stagione, dai toni più dark (tanto da valerle uno spostamento di orario) introduce Ghost Rider in modo efficace e originale oltre ai famigerati LMD, dei quali si parlava fin dalla prima stagione dello show. In questo arco ritroviamo il divertentissimo Dr. Radcliffe interpretato da John Hannah e l’energica inumana Elena “Yo-yo/Slingshot” Rodriguez con le fattezze di Natalia Cordova-Buckley. In particolare quest’ultima è un personaggio riuscito perfettamente, tanto da dedicarle anche la mini-webserie Marvel’s Agents of S.H.I.E.L.D. – Slingshot, brevissima ma molto accattivante. Molto interessante anche Jeffrey Mace, il nuovo direttore dello S.H.I.E.L.D., interpretato da Jason O’Mara e per il quale si aspettano nuovi sviluppi al rientro.
Quest’anno è tornata a farci visita anche l’agente Peggy Carter con la seconda stagione di Marvel’s Agent Carter. Purtroppo per il momento sono stati gli ultimi episodi che abbiamo potuto vedere con protagonista Hayley Atwell nei panni dell’unica donna tra gli operativi dell’SSR, in quanto la serie non è stata rinnovata. C’è da dire che queste ultime 13 puntate sono state di un livello nettamente inferiore rispetto alle 9 del 2015. La trama era piuttosto banale e poco accattivante e i continui giochi sulla vita sentimentale della protagonista combattuta tra il suo collega Daniel Sousa (Enver Gjokaj) e il Dr. Wilkes (Reggie Austin) alla lunga stancano. Sempre impeccabile Jarvis, interpretato da James D’Arcy e ottima la chimica con la Atwell. È bello che in Agents of S.H.I.E.L.D. abbiano fatto menzione (e anche qualcosa in più) degli eventi raccontati in questa serie e speriamo, fiduciosi visto il finale aperto, di rivedere l’agente Carter e gli altri in nuove avventure… magari su Netflix.
E proprio Netflix sforna altre due serie: la seconda stagione di Marvel’s Daredevil e il terzo serial del filone che sfocerà nel 2017 in The Defenders, ovvero Marvel’s Luke Cage. La realizzazione tecnica è sempre da togliere il fiato e sicuramente si prestano entrambe perfettamente al binge watching come se fossero lunghissimi film di 13 ore. Le trame stavolta risultano un po’ meno convincenti: il diavolo di Hell’s Kitchen parte benissimo con l’introduzione del personaggio di The Punisher interpretato da Jon Bernthal (talmente ben riuscito da meritare una nuova serie in solitaria). La trama però mette troppa carne al fuoco con l’introduzione di Elektra e de La Mano: una digressione mistica che non si comprende appieno e che convive in modo confusionario con l’arco del Punitore. Bellissimo il ritorno di Vincent D’Onofrio, sempre magistrale nella sua interpretazione. Luke Cage l’abbiamo conosciuto già in Marvel’s Jessica Jones, e non mi aveva dato l’impressione di un personaggio molto carismatico. Riesce però a sostenere il peso dei tredici episodi, aiutato in modo considerevole dalla già nota infermiera Claire Temple (Rosario Dawson) e dalla detective Misty Knight (Simone Missick). La trama diventa avvincente verso la seconda metà, lo spaccato su Harlem è significativo. Purtroppo non convince fino in fondo: risulta lenta e il decollo avviene di sicuro in ritardo.
Infine ci sono stati gli ultimi episodi di un’altra serie non rinnovata: se vi avevo parlato de “I Muppet” in maniera entusiasta già alla fine del 2015, il reboot creativo che era stato annunciato ha dato i suoi frutti. Sono da sempre contrario al fan service, ma quanto fatto con la banda di pupazzi creata da Jim Henson, è più un “richiamo all’ordine”: finalmente ritroviamo quelle caratteristiche che hanno reso grande il Muppet Show, quel cuore che avevamo visto battere a intermittenza torna in modo consistente a farsi sentire smussando un po’ quel cinismo mostrato all’inizio. Torna la musica, tornano alcuni sketch, con le dovute rivistazioni, cult… insomma, tornano i Muppet che il pubblico ama. È un peccato non aver continuato con la produzione di nuovi episodi su questa scia.