Che caso anomalo è quello di Toy Story, nel panorama cinematografico generale. Quando si ha a che fare con un’opera che si sviluppa in maniera seriale, la condizione necessaria affinché abbia qualche chance di mantenersi di qualità costante nel tempo è sapere dove si sta andando. In altre parole, avere ben chiaro il finale fin dal principio. Toy Story è forse l’eccezione con la E maiuscola: nel corso di più di un ventennio la saga, considerata una delle meglio riuscite della storia, è stata portata avanti di volta in volta con film autoconclusivi, in cui ogni nuovo episodio andava a spezzare uno status quo che fino a quel momento sembrava definitivo utilizzando il più banale degli espedienti, ossia introdurre nuovi personaggi. Non era necessario il secondo capitolo, che riapre una vicenda che era bella che conclusa con la nascita dell’amicizia tra Woody e Buzz, e non era certamente necessario il terzo, che coglie il pretesto della crescita di Andy per mettere in crisi la vita dei giocattoli.
Tuttavia, tra tutte le storie che davvero non c’era bisogno di portare al cinema, Toy Story 4 era forse in cima alla classifica; non tanto perché l’universo dei giocattoli avesse esaurito il suo potenziale (al contrario), ma perché con l’episodio del 2010 la Pixar aveva praticamente compiuto il miracolo, riuscendo a portare a termine una parabola perfetta anche in senso generazionale, allineando il percorso di crescita di Woody, del suo padrone Andy e dello spettatore, il bambino degli anni ’90 ormai cresciuto che ha dovuto anch’egli dire addio alla sua infanzia. Una chiusa eccezionale arrivata nel miglior momento possibile. Qualsiasi persona meno folle degli artisti Pixar si sarebbe fermata lì.
Ma siamo nel 2019, e nessuna saga che sia in grado di portare in cassa miliardi di dollari è immune alla sequelizzazione selvaggia. Una volta scesi a patti con questa realtà (se non altro per scarsità di alternative sulla piazza), si può constatare che non solo Woody, Buzz e compagni abbiano ancora qualcosa da dire, ma soprattutto che abbiano trovato l’uomo giusto per dirlo. Josh Cooley è una voce fresca, un regista attento e rispettoso dei suoi personaggi, ma soprattutto un autore con un senso del ritmo comico a dir poco impressionante (del resto si è fatto le ossa precedentemente in due cortometraggi). Toy Story 4 è senza dubbio il capitolo più divertente della saga, e forse uno dei film Pixar più esilaranti in assoluto: si ride tantissimo, con gag né originali né brillanti di per sé, ma interamente basate sulla precisione assoluta del timing, che Cooley è in grado di gestire come se fosse un maestro navigato.
Quanto alla vicenda raccontata, essa ha più il sentore di spin-off o di “episodio bonus” che di vero e proprio epilogo (anche se si pone come tale… almeno fino al prossimo capitolo, s’intende). Esaurito l’arco narrativo della banda di giocattoli di Andy, questa volta ci si concentra unicamente sullo sceriffo Woody, affrontando lo spinoso problema della sua vecchiaia. Woody ha alle spalle un passato glorioso con un bambino che ha amato moltissimo e che in nessun modo può sostituire con Bonnie, a maggior ragione perché quest’ultima sembra non apprezzarlo più e gli preferisce altri balocchi come la new entry Forky o la stessa cowgirl Jessie. È una situazione che avevamo già visto di recente in un altro film Pixar, Cars 3: proprio come Saetta McQueen al termine della sua carriera, Woody deve in qualche modo riqualificarsi, trovare una nuova ragion d’essere. Per il cowboy la nuova missione di vita diventa così aiutare gli altri giocattoli a farsi benvolere dal proprio bambino, nello specifico prendersi cura di Forky e fare in modo che sia sempre accanto a Bonnie, anche laddove questo significhi perdere per sempre il ruolo di preferito. Un percorso di maturazione che può dirsi definitivamente compiuto, se pensiamo che l’intero capitolo uno di Toy Story scaturisce dall’egoismo di Woody e dalla profonda invidia per essere stato sostituito da Buzz Lightyear.
Sulla scia del terzo film, Toy Story 4 è una pellicola più esistenziale in cui i personaggi, complice anche una ritrovata espressività frutto delle moderne tecnologie disponibili, sono più che mai umani. Non solo si pongono domande sulla vita e la morte, la coscienza e la possibilità di avere una seconda chance, ma in questa storia più di tutte le altre si comportano da esseri viventi, prendono in mano le redini delle loro vite, interagiscono con gli umani stessi per ottenere ciò che desiderano e infine, come fa Bo Peep, accettano anche la possibilità di una vita autonoma, in cui non ci sono bambini e i giocattoli sono gli unici artefici del proprio destino.