C’erano molte aspettative da parte della community degli appassionati di animazione attorno a Klaus – I segreti del Natale. Si tratta in fondo del primo film di Netflix Animation, una realtà che in brevissimo tempo ha individuato le criticità degli studi di Hollywood e ha fatto capolino nell’industria con pochi ma definiti punti fermi: storie originali, diversity e totale libertà creativa. Ma soprattutto si tratta del grande ritorno del 2D, e persino coloro che si sono consolati seguendo l’animazione europea non vedevano l’ora di ritrovare quella full animation dei tempi d’oro che da almeno dieci anni manca dai nostri schermi.
Il regista Sergio Pablos, però, è stato chiaro in merito fin dall’inizio: seppur riconoscendo le aspettative del pubblico, la sua filosofia è sempre stata quella di non ridurre Klaus alla mera tecnica, una semplificazione che forse avrebbe spinto a guardare il film solamente attraverso gli occhi della nostalgia, invece di considerare i suoi veri meriti. E senza dubbio aveva ragione, perché Klaus è un ottimo film prima ancora di essere un ottimo film d’animazione 2D.
Sarebbe stato molto facile bearsi della grandezza della character animation (probabilmente la migliore da molti anni a questa parte), della precisione della stilizzazione degli sfondi rigorosamente dipinti a mano o della straordinaria rivoluzione rappresentata dall’innovativo software per l’illuminazione, in grado di regalare ai disegni fatti con carta e matita un volume mai visto prima per un’opera bidimensionale. Eppure, alle conquiste grafiche e tecnologiche Pablos e i suoi collaboratori affiancano una storia solida, dal respiro classico ed evocativo di un modo di far cinema che in America sembra ormai perduto. Lontano dai riflettori di Hollywood, Klaus può permettersi di riscoprire tutta la raffinatezza e l’eleganza dell’animazione tipicamente europea, senza mai dimenticare tuttavia lo storytelling disneyano. Sergio Pablos ha imparato dai grandi (due nomi su tutti: John Musker e Ron Clements), e si vede: non c’è nulla di particolarmente originale o nuovo né nel soggetto raccontato né nella sua regia; piuttosto c’è un modo di dirigere che è già classico, ponte tra il passato e il presente con una nuova consapevole freschezza.
E c’è anche un’altra lezione che Pablos ha ben assimilato dai suoi mentori, quella del less is more che tanto sembra ostile alle grandi produzioni ad alto budget americane di oggi. Klaus non è un film ambizioso, ma è un film intelligente: sa che ridurre la trama all’essenziale significa far parlare i personaggi, mettere in risalto l’animazione, la loro recitazione, ed è proprio perché le loro performance sono così credibili che lo spettatore ride, piange e si emoziona di fronte a questa moderna leggenda natalizia. In Klaus – I segreti del Natale la storia serve la tecnica, e la tecnica serve la storia, e c’è poco da dire: è così che si dovrebbe fare animazione.
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